28 marzo 2019 10:25

Le paghe dei lavoratori italiani sono sotto la media europea, e l’Italia è al quinto posto nell’Unione per quota di working poors, e cioè di persone che hanno un lavoro ma ciononostante vivono sotto la soglia della povertà. I dati Eurostat mostrano che in Italia un lavoratore guadagna in media 12,49 euro all’ora, mentre nell’Ue la media è di 13,14 euro, in Germania è di 15,6 e in Francia di 14,9. Le cifre peraltro sono sovrastimate, perché sono calcolate tenendo conto solo delle aziende con più di dieci dipendenti, ed escludendo dunque quelle dove i lavoratori sono di meno e guadagnano di meno.

Inoltre, mentre in Europa 9,4 occupati su cento sono a rischio povertà, da noi la quota sale al 12,2 per cento, come ha sottolineato l’Istat nell’audizione al senato durante la discussione sull’istituzione del salario minimo in Italia. Una discussione urgente, visti i dati appena citati, e un’occasione per trattare nei palazzi della politica una questione rilevante per l’economia. Non è un caso che il salario minimo sia diventato un altro cavallo di battaglia del Movimento 5 stelle, secondo solo al reddito garantito per i poveri, partito tra molte difficoltà e ritardi.

Intestandosi questa battaglia, l’M5s cerca di risalire la china dei recenti risultati elettorali negativi al livello locale e dei sondaggi che lo danno in calo, e di rispondere all’iperprotagonismo di Matteo Salvini, leader della Lega e alleato di governo, rispondendo con una questione sociale a quelle securitarie e identitarie del ministro dell’interno. Ma i cinquestelle non hanno la primogenitura della proposta, né il dibattito sul salario minimo – entrato nel vivo della discussione al senato agli inizi di marzo – è nato ieri. Adesso però arriva al dunque, e bisogna rispondere a due domande: il provvedimento può far alzare i salari in Italia? Può rafforzare i lavoratori e le loro organizzazioni, oppure – come dicono i sindacati – rischia di indebolirle?

Che cos’è
Quella di cui si sta discutendo adesso è l’istituzione di un salario minimo legale, ossia di un limite sotto al quale non si può scendere nella retribuzione dei lavoratori. Esiste in 22 paesi europei su 28 (qui una tabella con i loro livelli). Quelli che non ce l’hanno – Italia, Svezia, Austria, Danimarca, Finlandia e Cipro – demandano la fissazione della paga minima ai contratti di lavoro collettivi. Proprio la storica forza della contrattazione collettiva in Italia spiega il ritardo con cui si arriva a questa discussione, e anche le perplessità dei sindacati e della Confindustria.

In teoria, la contrattazione collettiva in Italia copre quasi tutto il mondo del lavoro dipendente. Ma negli ultimi tempi si è assistito a una proliferazione di contratti collettivi – che erano circa 500 nel 2010 e che oggi sono 868 – e a una grande variazione al loro interno. Come ha detto il rappresentante della Confindustria nella sua audizione al senato, per lo stesso lavoro può esserci una differenza di retribuzioni che va dal 9 al 21 per cento.

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C’è poi il problema di settori che sfuggono alla contrattazione collettiva perché formalmente non coperti o perché proliferano forme per eludere i contratti – come le false cooperative – e quello dei tanti nuovi lavori che formalmente non sono dipendenti ma di fatto lo sono, come quelli della gig economy. Infine c’è il caso del lavoro domestico e del lavoro agricolo stagionale, che hanno contratti collettivi ma con minimi molto bassi e che dunque starebbero al di sotto delle nuove previsioni legali.

Per tutti questi motivi, anche le associazioni di lavoratori e di imprenditori che vedono con sfavore il salario minimo legale, riconoscono la necessità di una discussione e di un intervento, anche se poi le strade divergono sul come e sul quanto: qual è la platea su cui la legge deve intervenire, come regolare il rapporto con i contratti collettivi, a che livello fissare il minimo.

Le proposte
I disegni di legge in discussione sono due: il numero 310, presentato dal Partito democratico (Pd) all’inizio di questa legislatura; e il 658, depositato dall’M5s nel luglio 2018. La proposta del Pd prevede un salario minimo legale di nove euro netti all’ora, riguarda tutti i lavoratori e non fa riferimenti ai contratti nazionali.

La proposta dei cinquestelle è meno generosa: prevede nove euro lordi all’ora, si riferisce solo ai dipendenti subordinati e collaboratori, e prevede che si faccia riferimento alla soglia fissata dal contratto collettivo, se è superiore ai nove euro netti all’ora.

Entrambe le proposte prevedono meccanismi di rivalutazione automatica, legati all’inflazione, mentre solo la proposta del Pd prevede sanzioni per chi non applica il minimo legale.

La platea
Non è facile fare i conti, visto che la differenza tra salario netto e lordo complica un po’ le cose. Prendiamo in considerazione prima l’ipotesi dei nove euro lordi, che è più restrittiva ma il cui impatto è più facilmente stimabile. Secondo l’Istat, i rapporti di lavoro dipendente che attualmente sono sotto quella soglia sono il 20 per cento. Il che vuol dire che un lavoratore su cinque (2,9 milioni di persone) beneficerebbe del salario minimo versione M5S.

In media, guadagnerebbero 1.073 euro in più all’anno pro capite. Tra i principali beneficiari, ci sarebbero le lavoratrici (il 23 per cento di loro è sotto la soglia), i giovani sotto i 29 anni (il 32,6 per cento di loro è sotto il nuovo minimo legale), gli operai (il 26,2 per cento), e chi lavora nel settore alberghiero, in quello della ristorazione, dello sport, dell’arte. E poi gli apprendisti, i lavoratori impiegati nell’agricoltura e quelli domestici. Per questi ultimi l’associazione di categoria Assindatcolf ha chiesto un’esclusione dal provvedimento, perché si creerebbero “aumenti insostenibili per le famiglie”.

Nell’ipotesi dei nove euro netti, le platee crescerebbero. Stefano Sacchi, presidente dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) ha presentato delle stime secondo cui i beneficiari della proposta dell’M5s sarebbero il 14,6 per cento degli occupati, mentre quelli che rientrerebbero in quella del Pd sarebbero il 52,6 per cento. Alle due ipotesi, ha detto Sacchi, corrisponde un “costo” di 4,1 miliardi nel primo caso e di 34,1 nel secondo.

Gli effetti
A questo punto è lecito chiedersi: chi paga? Qui non parliamo di assistenza o reddito di cittadinanza, ma di contratti privati, dunque dovrebbero essere le imprese a pagare di più il lavoro. Pertanto, si entra nel campo delle conseguenze di questa misura: riduce le ore lavorate o le aumenta perché fa crescere i consumi e l’economia? Fa aumentare il lavoro sommerso e semisommerso?

La letteratura scientifica in materia è sconfinata. L’economista Alan Krueger è diventato famoso grazie a uno studio sugli effetti positivi sull’occupazione negli Stati Uniti durante la presidenza di Barack Obama. Il tema è tornato ai primi posti nell’agenda del Partito democratico, ora che alla Casa Bianca c’è Donald Trump.

Ma ogni simulazione e ipotesi, applicata all’Italia, deve fare i conti anche con un sistema caratterizzato sia dalla predominanza della contrattazione sia dall’enorme area di economia sommersa.

I sindacati e la Confindustria
Storicamente la posizione dei sindacati confederali italiani è sempre stata contraria al salario minimo legale. “Si tratta di una misura che appartiene ai sistemi a relazioni sindacali deboli, non assimilabili al nostro”, ha detto in commissione lavoro la rappresentante della Cgil, Tania Sacchetti. Ma la vecchia linea secondo cui “c’è il contratto, difendiamolo e applichiamolo” deve fare i conti con la proliferazione dei contratti-pirata (patti firmati da associazioni meno rappresentative e usati di fatto per fare dumping salariale) e con il nuovo lavoro “al confine tra subordinazione e autonomia”.

Dunque? La linea della Cgil, più volte espressa dal segretario Maurizio Landini è quella di rendere vincolante per tutti il minimo salariale fissato nei contratti nazionali: cioè la legge dovrebbe estendere erga omnes il salario stabilito dalla contrattazione tra le parti rappresentative. In questo modo si attuerebbe il salario minimo e allo stesso tempo si rafforzerebbero i contratti collettivi, depotenziando i “contratti pirata”.

Anche la Confindustria – secondo la quale il problema vero non è fissare un minimo sulla carta, ma farlo rispettare – guarda con maggior favore alla proposta dell’M5s, che “salva” la contrattazione collettiva. Sia i sindacati sia le aziende sono d’accordo poi nel dire che però in questo caso sarebbe essenziale stabilire cosa si intende per “parti rappresentative”. Cioè fare una legge sulla rappresentanza sindacale, che si aspetta dal 1948, anno di entrata in vigore della Costituzione italiana e del suo articolo 39.

Sarebbe un paradosso interessante. Il partito nato dalla disintermediazione, dal superamento (se non dal disprezzo) dei corpi intermedi della società – come sindacati e organizzazioni di imprese – ora si trova a dover fare i conti con Cgil, Cisl, Uil e Confindustria per far passare una sua riforma.

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