16 giugno 2015 14:43

Una coppia d’inglesi dalle pelli lattiginose getta pezzi di pane a un branco di cefali, le schiene argentee s’inarcano, l’acqua si solleva, un attimo dopo gli esemplari rimasti a digiuno scattano nervosi attorno al vuoto.

È giugno e sono seduto in un ristorante di Budva, in Montenegro. Un cameriere allampanato alliscia con qualche parola in italiano i clienti al tavolo di fronte, un gruppo di giocatori baresi di slot che parlano con il regolamentare tono di voce troppo alto. Sono appena arrivati con un volo charter assieme alle loro camicie floreali impossibili e agli occhiali da sole, ordinano vassoi di pesce che domani, dopo una notte di gioco in perdita, potrebbero generare inediti dubbi di opportunità. Alle nostre spalle montagne brulle, di fronte l’Adriatico, nel mezzo una statale nuova che unisce un agglomerato urbano irregolare fatto di casinò, sale scommesse e case vacanze per ricchi, nei parcheggi Porsche Panamera e Range Rover nere.

Questa mattina a Fiumicino, una giovane addetta Alitalia con il badge identificativo coperto da un foglietto che recitava “Odio tutti”, mi ha messo in mano il biglietto per il volo Roma-Podgorica e si è voltata prima che le facessi notare che i sentimenti più belli sono sempre quelli ricambiati. Un’ora scarsa di volo dopo, l’Embraer dell’Alitalia si è preparato all’atterraggio compiendo cerchi sempre più stretti sopra il lago paludoso alle porte di Podgorica; lì la pianura e l’acqua condividono una lunga terra di mezzo, in un’allegoria a buon mercato dell’economia del Montenegro.

All’aeroporto ragazzi in maglietta hanno lanciato le valigie sui cassoni di due trattori marca socialismo reale e dieci minuti dopo un tassista del casinò ha caricato su una Toyota Prius la mia unica valigia. Per un’ora di viaggio lui, grosso, rasato e silente, ha ascoltato dosi da centro sociale di ska balcanico, e io, medio, arruffato e sotto antibiotici, ho fissato lo schermo digitale che illustrava in tempo reale il funzionamento di un propulsore ibrido, ho guardato le case nuove di zecca con i tetti rossi di Sveti Stefan e mi sono appuntato che il primo taxi con il wifi che prendevo in vita mia copriva la tratta Podgorica- Budva.

A un certo punto, stupito dell’ottima qualità delle strade, ho chiesto: “Come va l’economia?”. “Male”. Poi di nuovo una lunga e ininterrotta distesa di ska balcanico.

Ora, seduto al ristorante, lancio a mia volta un pezzo di crosta lontano dal branco di cefali. Uno guizza nella mia direzione, il resto del gruppo gira a vuoto continuando a confidare negli aiuti da oltremanica. Se il livello della competizione si alza, prospera il più forte o colui che è in grado di vedere pezzi di pane dove fino a quel momento nessuno è stato in grado di scorgerli. A forse cento metri da qui, nel casinò di cui sono ospite, un centinaio di colleghi umani dei pesci satura un salone con il rumore incessante che fanno le pile di fiches quando le tormenti tra le dita.

È in corso un torneo di Texas hold’em no limit su due giorni, dove ognuno dei giocatori punta a essere l’anomalia in un sistema di sconfitti. A Budva sono arrivato sulle tracce dei giocatori italiani, ospite della transumanza che ha seguito la fine dell’epoca d’oro del poker online in Italia. Troppo alto il livello, troppi giocatori skillati come dicono nella loro lingua ibrida i pokeristi, e un ricavo atteso che per molti è diventato troppo basso per giustificare il rischio e le ore di lavoro.

Così molti professionisti (pro) italiani partono alla ricerca di mercati ricchi di persone che non conoscano la matematica del gioco ma possiedano in parti uguali liquidità e controproducente testosterone. Avere fortuna non guasta mai, ma quello che serve per vincere a Texas hold’em è soprattutto conoscenza della teoria dei giochi e la possibilità di affrontare avversari con nessuna o una limitata e facilmente individuabile conoscenza della disciplina.

L’hold’em è un gioco a strategia interattiva e informazione incompleta. Definizione, questa, oscura ai più, e che significa un discreto numero di cose, per il momento basti dire che dove l’immaginario popolare vorrebbe vincessero il genio, i bluff, le compagnie di bari con il cavallo legato fuori del saloon, la realtà dei professionisti è fatta di pazienza, capacità di gestire il denaro, attendere, lavorare con le statistiche, osservare e applicare strategie a geometria variabile a seconda di chi ci si trova di fronte.

Piuttosto che un revolver, torna utile aver fatto qualche esame universitario di matematica. Tutte cose che diventano ancora più vere quando si passa al cash game – i tavoli collaterali al torneo dove per tutta la notte si giocano soldi veri – e nel poker online – dove l’importanza della varianza raggiunge i livelli più alti, fino a farsi la legge sovrana che distingue l’attivo economico dal passivo: la differenza tra il poker come professione o come costante prelievo di sangue.

In un paese, il Montenegro, dove il denaro illegale si scioglie in quello legale senza lasciare apparentemente né residui né serie Sky, gli italiani seduti ai tavoli dei casinò sono persone tra i venti e i quarant’anni con una conoscenza di nozioni matematiche di buon livello giunti fino qui proprio per alleggerire imprenditori e malavitosi del luogo, ancora erroneamente convinti che il poker sia un gioco di coraggio e istinto e per questo del tutto ignari di essere diventati il pezzo di pane che il resto branco non ha ancora visto.

Sorridono appena, i miei compatrioti, gli occhiali da vista sul naso e lo sguardo intenso dell’impiegato dell’anagrafe che pregusta un’assemblea sindacale. Dall’altra parte del tavolo li fissano volti cupi, attraversati da quei tratti privi d’ironia che evocano le violenze spente da pochi anni e che appaiono ancora qua e là come ombre scure nei gesti degli uomini e nei volti delle donne pronte a guardarti male se per caso tu, maschio, fai cose effeminate tipo ridere.

Per i corsi e i ricorsi storici, la categoria di giocatori che ritiene il poker un fatto da saloon o di sola fortuna – ed è per questo destinata a subire uno scientifico espianto di euro dal portafogli – si chiama proprio fish. Anche il pesce fresco del poker ha le sue rotte privilegiate: per anni l’Italia è stato un paese molto pescoso, ma oggi per gettare le reti servono viaggi a Cipro, Malta, Montenegro o, se giocate pesante, Macao.

Il poker, come tutte le discipline dove il denaro gira sui risultati e non sulle gerarchie e sulle incrostazioni di potere, cambia e si sposta in fretta. È il lato ipercinetico della meritocrazia.

Il mio viaggio lungo diversi mesi nella disciplina non è partito dalla battuta di pesca a Budva, Montenegro, ma da Hollywood, divano di casa mia.

L’avvento del poker online

La maggior parte dei giocatori online della prima ondata con cui ho parlato nel corso di questi mesi alla domanda “Come hai iniziato?” hanno finito per citare in una maniera o nell’altra Rounders, il film del 1998 di John Dahl dove un giovane Matt Damon, studente alla facoltà di legge e talentuoso pokerista, si fa strada nel sottobosco delle bische newyorkesi, rischiando tutto per guadagnare i soldi necessari all’iscrizione ai tavoli delle World series di Las Vegas.

Il film, a detta dei professionisti, è una discreta ricostruzione dell’ambiente pokeristico, utile per entrare in confidenza con alcuni concetti come quello di grinder (macinatore), il giocatore di poker professionista che non gioca tutte le mani, rischia il meno possibile, paziente e inesorabile come una macina (non preposta a essere inzuppata nel latte), e finisce sempre per portarsi a casa i tuoi soldi. Nella memorabile scena finale di Rounders è esplicitato anche il concetto di tell, ovvero l’indicazione fisica o verbale involontaria con cui i giocatori forniscono indizi sulle carte che hanno in mano.

Un altro momento topico e noto quasi quanto il grossolano tell del biscotto, è il litigio tra Mike, il personaggio interpretato da Matt Damon, e la sua fidanzata che lo accusa di giocare d’azzardo: “Why do you think the same five guys make it to the final table at the world series of poker, every-single-year?” (Come credi che arrivino ogni anno al tavolo finale delle world series sempre le stesse cinque persone?).

La verità è in questo caso un po’ più complessa, dato che in un certo senso hanno ragione entrambi, sia Mike sia la sua fidanzata. Il poker è effettivamente uno skill game, un gioco di abilità in cui però il caso ha un ruolo ineliminabile. Le due cose convivono nella misura in cui anche rapportarsi alla varianza presuppone un’abilità, anzi è l’abilità primaria del pokerista: gestire il caso per appianarne le asprezze e uscire con un segno positivo sul bankroll, la parte del proprio patrimonio che il giocatore dedica al poker.

Non è un caso che nella lingua del poker, che è di stretta derivazione inglese (rinforzare il mindset per uscire dal downswing ed evitare di andare broke è una frase che potreste tranquillamente sentire in un’intervista), il solo termine di slang autenticamente autarchico che sembra sopravvivere a qualsiasi forma di contaminazione sia: sculare. Si intende ovviamente to be lucky, espressione che forse in originale suonava un po’ volgare.

Quello che oggi non torna più della battuta di Rounders è piuttosto l’esempio portato a sostegno della tesi: nel 2015 è forse ancora possibile provare a individuare i cinque giocatori più forti del mondo, ma non si può più essere certi che se tutti e cinque partecipano allo stesso torneo delle World series saranno loro a sedere al tavolo finale. Non si può più dire perché poco dopo l’uscita di Rounders il mondo del poker è cambiato radicalmente e, come spesso accade, per via di silicio e derivati.

Effetto Moneymaker

Il momento di svolta, universalmente riconosciuto, è la vittoria di 2,5 milioni di dollari al main event delle World series 2003 di Las Vegas ottenuta da Chris Moneymaker un pokerista amatoriale che aveva vinto l’iscrizione al tavolo più importante del mondo (costo: diecimila dollari) grazie a un torneo di poker online da 40 dollari di buy in.

La partita tra Ihsan “Sam” Farha (a destra) e Chris Moneymaker durante la finale del World series of poker del 2003. Sul tavolo il premio da 2,5 milioni di dollari. (Frederic Neema, Laif/Contrasto)

Al tempo della vittoria Chris faceva il contabile a Nashville, Tennessee, e questo finì per mettere l’acquolina in bocca a un sacco di non professionisti, player occasionali pronti ad andare a lavorare di giorno in un’assicurazione, in banca o in un autolavaggio e a sperare di diventare i nuovi Chris Moneymaker di notte. Non li spaventava il fatto che, nella maggior parte dei casi, non potessero sicuramente contare su un cognome tanto profetico. Moneymaker infatti non è un soprannome ma un attronimo, cioè il suo cognome vero, il che fornisce al detto latino nomen omen un nuovo, scintillante e molto telegenico, senso.

I fatti successivi rivelarono che Moneymaker non era un genio del poker ma un giocatore mediocre a cui era capitata una sequenza sorprendente di ottime carte che gestì con mosse a cui i pro non erano abituati, e proprio perché non erano particolarmente buone. Ricordate la geometria variabile di cui sopra? In altri termini significa che oltre al motto delfico “conosci te stesso” a un tavolo di Texas hold’em è necessario conoscere anche gli avversari, e in quel contesto nessuno era pronto ad affrontare un giocatore mediocre.

Sam Farha, il pro libanese che per ultimo rimase al tavolo a fronteggiare Moneymaker aveva confessato prima del torneo di temere i giocatori di basso livello più di quelli bravi e, purtroppo per lui, i fatti gli diedero ragione.

L’amatore del Tennessee fu la famosa anomalia, un piccolo cigno nero spuntato con le sue penne di colore scuro dentro il tempio mondiale del poker per fare un’allegra strage di più blasonati pennuti bianchi. Moneymaker fu qualcosa che nessuno dei pro aveva visto arrivare, proprio perché nessuno in cuor suo la riteneva possibile.

Sulla realtà dei fatti s’innestò presto la storia, inesorabile, mitologica, coerente, eroica, americana. I media descrissero al grande pubblico ogni sostanziale colpo di culo di Moneymaker al tavolo come la mossa geniale e imprevedibile del grande talento nascosto del poker, magnificando l’abilità tecnica e la ponderata spregiudicatezza di Chris, l’uomo medio che potresti essere proprio tu amico telespettatore.

Le cose non stavano così, ma non era certo la prima volta che la propensione del cervello umano a legare gli eventi in storie la cui coerenza appare sensata solo a posteriori, finiva per occultare le inappellabili e silenziose leggi dei numeri. Numeri in grado di certificare come scellerate anche le scelte che si dimostrarono vincenti nel caso specifico. Nel poker non esistono infatti mosse giuste in assoluto, così come mosse sbagliate possono rivelarsi vincenti al river, il girare dell’ultima carta. Il massimo a cui si può ambire sono mosse che puntino alla maggior percentuale possibile di vittoria in una data situazione dove alcune variabili (le carte dell’avversario e quelle in comune ancora da scoprire) rimangono sconosciute fino alla fine.

Questo è il limitato concetto di giusto a cui tende il giocatore professionista e già la differenza di complessità e lunghezza tra questo e “Ommioddio Moneymaker è un genio del poker!” vi fa capire verso quale tipo di approccio narrativo tenderà una telecronaca.

Tutto ciò forse non è d’immediata comprensione ma ci torneremo sopra più avanti. Quello che conta per il momento è capire che le dimensioni del racconto delle World series del 2003 furono globali tanto che, per descrivere le conseguenze della vittoria dell’uomo venuto dal nulla fu coniata un’espressione passata agli annali della disciplina: “Moneymaker effect”. L’ondata planetaria e senza precedenti d’interesse per il Texas hold’em era cominciata.

Las Vegas rimaneva però pur sempre nel mezzo del deserto del Nevada, raggiungere i suoi casinò e le sue per nulla kitsch finte ricostruzioni di Venezia per giocare ai tavoli continuava a costare cifre importanti. Il vero boom fu quindi quello dell’online, il poker comodamente disponibile nelle camerette di ogni località provvista di una connessione a internet e in grado di offrire tornei con buy in di pochi euro e cash game per tutte le tasche, più o meno a qualsiasi ora del giorno e della notte. Questo, e il legame di alcuni tornei online a quelli live, ha portato le room virtuali a un rapidissimo incremento del numero di utenti.

La conseguenza più importante, oltre all’aumentare del giro d’affari, fu un cambio radicale del modo di giocare. Se Chris Moneymaker era stato espressione soprattutto della componente di azzardo insita nel poker, tra le schiere di nuovi giocatori dell’online ne emersero in fretta invece di molto bravi, perfettamente in grado di porre l’accento sulla componente di abilità del gioco. Il cambiamento fu particolarmente evidente anche perché questi nuovi professionisti erano fisicamente più simili ad anonimi nerd che ai personaggi a cavallo tra mistero, delinquenza e folclore del poker old school.

I migliori della nuova leva, dopo aver spennato tutti neofiti che al contrario di loro si erano affacciati online senza prendersi la briga di studiare, sul medio periodo avrebbero spazzato via anche buona parte della precedente aristocrazia del gioco.
L’irriducibile tendenza alla disruption che internet porta con se qualsiasi cosa tocchi, ampliò esponenzialmente la platea dei giocatori permettendo a chiunque di sedersi al tavolo da qualsiasi luogo del mondo e questo – fosse anche solo per una mera questione statistica di distribuzione del talento – elevò il livello del gioco fornendo le stesse possibilità di accesso alla disciplina a uno nato a Castenedolo (in provincia di Brescia) piuttosto che a Las Vegas.

Amarillo Slim Preston (al centro) durante la 34ª edizione del World series of poker, il 20 maggio 2003. (Monica Almeida, The New York Times/Contrasto)

Un altro fattore che contribuì in modo fondamentale ad alzare la barra come mai prima di allora furono i siti, i forum e le lezioni online che resero possibile una diffusione senza precedenti del sapere attorno alle tecniche del gioco, tecniche che venivano, e vengono tuttora, discusse e affinate senza sosta.

Tra i professionisti dell’online oggi è diffusa la consapevolezza di essere giocatori migliori di quelli del passato e, al tempo stesso, quella che nel futuro, anche solo tra dieci anni, la conoscenza del gioco avrà raggiunto un livello che oggi non è nemmeno possibile immaginare.

Era cambiata la concezione stessa del tempo in cui il gioco è inserito: era finito il presente perpetuo in cui la disciplina aveva vissuto fino a quel momento ed era nata una progressione. L’accelerazione era stata brutale e non se ne vedeva la fine. Il poker si era già fatto più complicato, remunerativo e al tempo stesso interessante.

Non tutti i nuovi arrivi a ogni modo erano dei geni del gioco, ma anche questo era quello che serviva a sviluppare la disciplina apportando denaro fresco nel sistema.

Durante il boom, chiunque avesse anche un livello minimo di competenze statistiche e si fosse messo a studiare come si applicavano al gioco poteva fare un sacco di soldi.

È a questo periodo che si riferisce la maggior parte delle storie mirabolanti sui giocatori online che se avete meno di quarant’anni sentite ancora ogni tanto sotto forma di echi di seconda e terza mano nelle discussioni alle cene tra amici, alle feste o nei bar: “Ah sì il cugino della ragazza del veterinario del mio gatto guadagnava diecimila euro al mese giocando a poker online. No, non so se giochi ancora, Puffetto è morto”.

Per quanto la morte dei felini sia sempre un evento triste e l’attribuzione di un fondamento oggettivo a leggende di questo tipo mai particolarmente agevole, una simile età dell’oro del poker online è effettivamente esistita e a beneficiarne sono stati i pochi che conoscevano bene il gioco in un momento in cui decine di migliaia di nuovi fish sostanzialmente sprovveduti si affacciavano nelle room, i siti dove si gioca a poker online.

A ben guardare, i tempi gloriosi della disciplina in Italia sono stati quindi una mattanza ma come sempre la storia la raccontano i vincitori: un gruppo relativamente piccolo di persone per le quali quella fu realmente l’età dell’oro.

Alla fine di una notte di maggio ho preso un taxi per l’aeroporto, deciso a farmela raccontare da chi quel periodo l’ha vissuto.

Il giocatore dell’online

Andrea Piva mi aspetta alle otto di mattina all’aeroporto di Bari Palese con un Bmw zeta 3 nero discretamente tamarro. “Mancano solo i neon azzurri sotto le minigonne”, osservo.

“In realtà”, risponde lui mentre guida veloce verso il lungomare senza smettere di armeggiare con una sigaretta elettronica di sua costruzione, una specie di calumet sci-fi a più moduli, “i neon ci sono, li ha messi il precedente proprietario, ma non li uso mai” e in effetti solo ora mi accorgo che sul tunnel centrale c’è ancora lo switch di accensione delle luminarie da festa del patrono, un interruttore grigio con sotto la scritta “Baby go” fatta con l’etichettatrice. A malincuore riesco a non chiedergli di accenderli.

Scrittore (Apocalisse da camera, Einaudi) e sceneggiatore (LaCapaGira, Mio cognato e altri), Andrea Piva a un certo punto della sua vita ha deciso che ne aveva abbastanza del mondo del cinema romano e di quel genere di persone per cui un giorno sei una divintà atzeca da sfamare a oro e vergini sacrificali per via della tua visionarietà artistica e il giorno dopo tutto quello che ti offrono di scrivere sono storie di preti, medici e suore eroiche che salvano cani pastore.

“L’ultimo ingaggio che mi proposero era un progetto per la tv che si chiamava Morte di un artista. Lo presi come un segno del destino e decisi di cambiare vita”. Solitamente però è qualcosa sempre più facile a dirsi che a farsi, come mi spiega una volta seduti ai tavolini di un bar di piazza del Ferrarese, da dove si vede proprio il ristorante delle sequenze iniziali di Mio cognato.

“Tu non ci crederai ma proprio non sapevo cos’altro fare” e, qui mi sento in dovere di giurarvelo, Andrea Piva (persona di noto e comprovato ingegno e invidiabile cultura e titolare tra l’altro di un’incongrua laurea in giurisprudenza) dice esattamente: “Allora ho cercato come fare soldi su Google”.
“Su Google?”, ho replicato, quasi uccidendomi con la brioche al cioccolato.
“Sì, come fare soldi. Una delle cose che ho trovato è stata il poker online”.

Andrea aveva già una certa confidenza con il gioco d’azzardo:

Prima di tutto in famiglia. Al sud sono molto diffusi giochi di carte, soprattutto il poker all’italiana, che poi italiano non è, un gioco molto più limitato del Texas hold’em. È anche abbastanza assurdo perché si levano le carte più basse per avere la sensazione di fare punti più importanti. Il giocatore di poker all’italiana se potesse vorrebbe fare non poker, ma super-mega-poker.

Da adolescente Andrea vive anche un certo periodo di assuefazione per le macchinette, allora illegali, nei retrobottega di alcuni bar di Bari, una fase che poco tempo dopo gli fornirà il background per scrivere la sceneggiatura di LaCapaGira. Il Texas hold’em però è un’altra faccenda, e arriva molti anni dopo la conclusione di quell’esperienza di azzardo in cui il banco vince sempre. Tutto nasce, come spesso accade nelle storie di giocatori, con una vittoria più o meno frutto del caso assoluto.

Dopo il verdetto dell’aruspice di Mountain View, Andrea compra il buy in per un torneo da due euro online di Tesax hold’em, lo vince e incassa 1.200 euro.
Rigioca lo stesso torneo la settimana seguente e ne vince altri 1.200. È nato un amore.

Subito dopo però incominciano le sconfitte e Andrea decide di mettersi a studiare seriamente il gioco, perché vincere è bello, giocare è divertente, ma perdere mica tanto, specie se non ti va di scrivere Morte di un artista. La formazione si può fare in molti modi, prima di tutto esiste una letteratura grosso modo sterminata sull’argomento, poi ci sono i forum, ma non solo.

“Io ho fatto anche molto coaching online, ovvero ho preso lezioni via skype da giocatori professionisti stranieri. Ti possono assistere live durante il gioco oppure si può fare dell’hand review a partita finita. Si riguardano e si commentano assieme le mani più importanti o quelle più complesse, basta salvarle con un software”.

Che sia fatta con l’aiuto di un coach o da soli, la revisione delle mani e dei dati statistici della sessione appena conclusa è un’attività imprescindibile nella routine quotidiana di un giocatore di poker professionista. Unendo tutte le forme di studio disponibili Andrea in breve ricomincia a vincere, e all’arrivo delle room nazionali dopo la messa al bando dall’Italia di quelle internazionali, diventerà uno di quelli che passeranno momenti molti felici.

A quel punto anche grazie alla notorietà acquisita giocando i tornei sui .com, diventerà membro del team Sisal Poker, la squadra sponsorizzata dalla room della Sisal. Qualche anno e una discreta carriera dopo lascerà la squadra per tornare a giocare da solo e avere il tempo di lavorare a un nuovo romanzo. Nel frattempo però ha imparato parecchie cose sul gioco.

Le regole

“Quando giochi con il limite, spari mirando a un bersaglio. Senza il limite, il bersaglio prende vita e spara a te”.
Crandell Addington a proposito del Texas hold’em no limit

Un tavolo alla slot house Blu King a Roma, maggio 2008. (Marta Sarlo, Contrasto)

Per giocare una mano di Texas hold’em no limit due dei giocatori a rotazione devono mettere un buio (blind), ovvero un piccolo quantitativo delle proprie chips, e in cambio si ricevono due carte che rimangono coperte.

Ci sono inoltre cinque carte in comune che vengono girate in tre fasi diverse: le prime tre vengono rese pubbliche assieme (flop) la quarta da sola (turn) così come la quinta (river).

In ognuna delle fasi di gioco è possibile abbandonare il gioco (fold), starci senza puntare (check), puntare (raise), pareggiare la puntata degli avversari per continuare a giocare la mano (call).

Se due o più giocatori arrivano alla fine dell’ultima fase, vince chi ha la migliore combinazione di cinque carte, considerando sia quelle che ha in mano sia quelle in comune. I punti sono quelli del poker classico, cambia solo lievemente la gerarchia. Nel no limit è possibile puntare tutto quello che si ha in una sola mano, il che rende la specialità estremamente spettacolare e aggressiva, oltre che molto complicata dal punto di vista matematico.

“Il Texas hold’em no limit è ancora un gioco non risolto. All’università di Alberta, in Canada, hanno un gruppo di ricerca sul poker che lavora da anni su dei bot, intelligenze artificiali che giocano a poker, e che ha risolto il Texas hold’em heads up (uno contro uno, ndr) limit, ovvero con un massimale fissato per ogni puntata. Risolvere il no limit però è un obiettivo ancora molto lontano”, mi spiega Andrea, poi ci avviamo verso il suo “ufficio”.

Il set up del professionista

Andrea abita con la sua ragazza e due gatti (uno dei quali purtoppo è morto nei mesi successivi al nostro incontro, chiudendo probabilmente per qualcuno un’altra linea di contatto con una storia di poker online vincente), in una casa a schiera poco lontana dalla litoranea a sud di Bari. Il condominio ha una grande piscina il cui azzurro chiaro contrasta con la terra arsa tutto attorno, sull’altro lato, verso occidente, il sole scende sopra i convogli regionali che sferragliano diretti a Lecce.

In casa, sul soppalco sopra il salotto, oltre a un tavolo con tutti gli strumenti per produrre infinite varianti di sigarette elettroniche, c’è la postazione di lavoro di Andrea. Una sedia comoda, due computer, tre schermi, e un impianto audio con un subwoofer che diffonde musica retrofuture a volume alto, costante e sferico. Produttori dai suoni cupi e ambientali come Perturbator, Lazerhawk, Stellar Dreams, accompagnano l’andamento regolare, quasi altrettanto ritmico del gioco sui tavoli virtuali.

Andrea può giocare contemporaneamente anche su 14 tavoli se in cash game, 20 se in tornei. I tavoli si illuminano a turno quando è il momento di prendere una decisione (una ogni pochi secondi) e sono tutti sullo schermo centrale, su quello a destra scorrono le statistiche complessive delle partite in corso e su quello di sinistra girano i video YouTube delle canzoni.

Quando tutto è in funzione, il soppalco è come un mondo a parte, ben presto il giocatore sembra perdersi nel flow di un processo decisionale la cui cadenza è dettata dalla macchina, in un’unione quasi mistica e meditativa fra tecnologia e uomo, un po’ come nei dipinti di Simon Stalenhag che occupano gli sfondi dei suoi schermi.

Per giocare in modo più efficiente e su più tavoli, molti pro dell’online utilizzano una serie di software che permettono di sfruttare i big data per prendere decisioni migliori e più rapide, programmi il cui uso per altro è autorizzato da tutte le maggiori poker room.

Sullo schermo centrale, quello con i tavoli, alla base dell’icona che rappresenta ognuno degli opponenti è sovrapposto un heads-up display, una mascherina che fornisce alcuni valori statistici fondamentali sul gioco del concorrente, il più immancabile dei quali per esempio riguarda il suo range di apertura, il punto minimo cioè con cui quello specifico giocatore decide di solito di giocare la mano.

Non è l’unico valore, altri stimano l’aggressività o la prudenza degli opponenti in ognuna delle fasi del gioco e in relazione alle carte in comune rivelate fino a quel momento, oltre che ovviamente le percentuali di successo delle carte in mano al giocatore.

Dato che però una stima di questo tipo può avvenire solo in rapporto al range di punti che presupponiamo si trovino in mano i nostri avversari sulla base del loro gioco precedente, si tratta di un dato ben diverso da quello che vediamo in sovraimpressione durante le partite in tv dove i commentatori conoscono le carte di tutti i giocatori: una condizione di onniscienza in cui tutto diventa di colpo molto più facile e la saggezza è decisamente più a buon mercato.

Ogni griglia dell’heads up display si può comporre utilizzando le statistiche che si ritengono più utili, e se queste non sono contenute di default nel programma è possibile farsele scrivere su misura.

“Io mi sono fatto scrivere alcune formule da alcuni programmatori indiani”, dice Andrea spipacchiando dal suo calumet color argento. Costo per algoritmo: qualche centinaio di euro, a seconda della complessità.

Online è possibile giocare molte più mani all’ora rispetto ai tavoli live e questo fornisce la possibilità di produrre grandi quantità di dati, immagazzinarli e studiarli con l’uso di software. La produzione e l’analisi dei dati è il motivo principale per cui, anche quando non hanno l’ausilio dell’heads up display e degli altri software (ovvero nelle partite dal vivo), i giocatori di alto livello dell’online sono generalmente più competitivi di quelli che si limitano al gioco dal vivo.

I software possono attingere a banche dati di un milione di mani per ogni singolo opponente, se si tratta di avversari ricorrenti. Tutto viene archiviato e numeri così ampi incominciano a fornire indicazioni statistiche utili. Le grandi masse di dati, se studiate adeguatamente, sono in grado di generare una conoscenza del gioco senza precedenti.

Nel poker esistono soluzioni giuste, ma che non sempre si rivelano vincenti. Com’è possibile?

Più tardi io e Andrea beviamo un caffè in un bar di Torre a Mare. Seduto al tavolino
osservo il tranquillo scorrere sulla litoranea di una famiglia di tre persone su una vespa, respiro aria di mare e levantina impunità per il codice della strada e ripenso alla sessione di gioco a cui ho assistito e della quale, sul momento, non ho capito molto.

“Le tecniche di gioco sono molte e complesse, impadronirsene costa tempo, studio e lunghi periodi di pratica al tavolo”, spiega allora Andrea, “ma ci sono due aspetti fondamentali da capire in tutta la faccenda: la teoria dei giochi e la varianza: rapportarsi razionalmente alla varianza è forse il compito più difficile per un giocatore professionista”.

È arrivato il momento di provare a fornire alcune brevi spiegazioni di questi concetti.
Una prima introduzione alla teoria dei giochi è contenuta in questo video in cui Russell Crowe nei panni del matematico John Nash spiega che sotto determinate circostanze sia più logico non andare troppo per il sottile e sacrificare una biondona da ululati per una più sicura e abbordabile moretta media ed evitare il conflitto con gli altri contendenti.

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Crowe/Nash insegna alcune cose: la prima è che la mia idea adolescenziale di un sindacato maschi in grado di mettere le donne in una situazione di oggettivo bisogno controllando l’offerta, non era poi così campata in aria da un punto di vista scientifico; la seconda, più prosaica, è che per fare una scelta efficiente in un ambiente complesso è necessario provare a prevedere il comportamento degli altri soggetti in campo.

Ora questo tipo di previsione si scontra con delle oggettive situazioni d’ignoranza, prima di tutto perché noi non siamo gli altri e possiamo solo fare ipotesi su quelle che saranno le loro decisioni, e in secondo luogo perché le scelte future si svolgono appunto nel futuro.

Questa è una mancanza d’informazioni a cui possiamo rapportarci solo attraverso lo strumento del calcolo delle probabilità.

Allo stesso modo, poiché il poker è un gioco in cui non conosciamo le carte in mano ai nostri avversari è necessario creare una strategia che tenendo conto del passato e del presente offra una visione probabilistica del futuro. Non una soluzione certa, sempre vincente cioè, ma ragionevolmente vincente in un certo numero di situazioni.

Le variabili da incrociare sono molte, non solo le carte che presupponiamo in mano al nostro avversario, ma anche l’ampiezza del pot (i soldi che sono in gioco), il nostro chips count (il patrimonio che ci rimane), il punto della partita in cui si svolge questo scontro, e la situazione degli avversari che magari hanno deciso di non giocare quella mano specifica e potrebbero rivelarsi, dal punto di vista probabilistico, i veri vincitori di una contesa a due, e questo semplicemente astenendosi. Stessero così le cose, comunque vada a finire la mano, questo farebbe della nostra scelta una pessima scelta.

Entrare più nello specifico è impossibile in questa sede, quello che però è importante capire è che alla base della scelta di un buon giocatore di poker c’è la capacità di tessere un’efficace strategia basata sul concetto di probabilità, non di fare la mossa vincente in qualsiasi circostanza, perché egli è il campione, anzi, a dire il vero una simile assunzione di base è quasi sempre una via abbastanza sicura per la sconfitta.

Per vincere a questo gioco è perciò talvolta richiesto anche di saper perdere, e per questo il poker è l’unico sport che, anche se venite dal nulla, vi permette di sedervi al tavolo con il giocatore più forte del mondo e avere una qualche, seppur minima, possibilità di vincere una mano, possibilità che non si presenterebbe invece marcando a uomo LeBron James, a meno che, ovviamente, non gli sparaste.

Il judo del poker

Tutti i giocatori di alto livello raccolgono informazioni sugli avversari, attraverso i dati o attraverso l’osservazione del loro gioco dal vivo, e, combinandoli con la loro esperienza, elaborano strategie dinamiche, in grado cioè di essere adattive in tempo reale.

Una strategia deve contemplare però anche la capacità di difendersi da quelle altrui e uno dei modi migliori di farlo è inserire irregolarità nei propri pattern di gioco, per esempio aprendo talvolta con un punto molto più basso del solito.

Si badi bene che questo non significa necessariamente bluffare perché alla fine della mano, quando le cinque carte in comune sono state rese pubbliche, una combinazione inizialmente debole potrebbe essere diventata quella più forte, il che però era statisticamente molto poco probabile all’inizio della mano, motivo per cui nessuno poteva ragionevolmente attendersi che l’avreste giocata. Il punto quindi non è tanto fingere o meno, quanto radere al suolo la capacità di predizione dell’avversario con lo scopo di mandarlo in bancarotta spirituale. Il che, se proprio vogliamo essere sinceri, suona anche molto più divertente.

In gergo questo si chiama soulown, e vuol dire arrivare a dominare l’anima dell’avversario, distruggendo il suo modo di vedere il gioco in quel momento, in altre parole compromettere il suo essere al tavolo come essere pensante e dotato di una visione di insieme attraverso la quale governare il rischio.

Perdere una mano dove si avevano delle buone probabilità di vittoria ci può stare se la sconfitta viene dallo spazio di rischio che si era messo in conto, ma perdere contro un punto che non si era visto arrivare, be’ questo è essere stati dominati mentalmente, e da lì in poi la partita si fa in salita. Il bene più importante del pokerista, più ancora del denaro di cui dispone, è il suo mindset, termine che indica l’armonioso insieme d’intelligenza, talento, competenze tecniche e tranquillità interiore necessario a coltivare speranze di vittoria.

Il colpo inoltre è tanto più forte e doloroso quanto più è alto e complesso il meccanismo di pianificazione mentale che si è dimostrato inefficace. Prendiamo un dibattito politico medio a Porta a Porta: il livello di complessità della discussione è solitamente talmente basso, gli skills argomentativi così poveri, che è molto improbabile che uno dei contendenti a un certo punto taccia senza sapere più che dire. Questo perché la dialettica è talmente terra terra che nell’improbabile eventualità che insorgano delle difficoltà è sufficiente continuare a rifugiarsi nelle routine collaudate e tutto sommato insignificanti del dibattito politico contemporaneo. Prendiamo invece un tipo di oratoria pubblica molto diversa: una finale di una gara di freestyle hip hop di alto livello. Un luogo dove le sinapsi sfrigolano alla ricerca d’incastri metrici al fulmicotone e di messaggi che siano a un tempo sia brillanti sia capaci di delivery, siano cioè in grado di articolare un concetto per farlo arrivare in fretta ma in maniera cristallina e deflagrante, all’ascoltatore.

Se uno dei due contendenti riesce a individuare un punto veramente debole del mindset del suo avversario, può potenzialmente metterlo a tacere o quantomeno rendere il suo segmento successivo assolutamente irrilevante. Questo perché gli skills coinvolti nella battaglia sono tali e tanti che il loro collassare travolge il soggetto che li aveva messi in campo.

Soulown

Una dinamica di questo tipo è simile a una mossa di arti marziali che rivolta la forza dell’avversario contro di lui, in questo senso, per assurdo, non è nemmeno sempre necessario essere più forti; un colpo, anche casuale, ma fortunosamente ben assestato, può mettere in difficoltà avversari più forti e preparati di noi, che proprio perché sono migliori si interrogheranno a lungo su dove hanno sbagliato, con il rischio di andare in tilt.

Una partita durante la quarantesima edizione del torneo World series of poker al Rio hotel di Las Vegas, luglio 2009. (Ron Haviv, VII/Luzphoto)

I tentativi di depistaggio strategico sono la conseguenza dell’innalzarsi del livello del gioco seguito al boom dell’online e l’effetto più evidente di questa maggiore consapevolezza tecnica è stato l’aumentare costante dell’aggressività delle strategie.

Dario Minieri, romano, classe 1985, è stato sin da giovanissimo uno dei giocatori più aggressivi del periodo d’oro del poker italiano, raggiungendo una lunga serie di successi e la sponsorizzazione del portale Pokerstars.it, seguita però da un successivo lungo periodo di insuccessi che è finito per costargli la partnership.
Contattato per questo reportage Dario ha declinato la richiesta d’intervista, dicendo di voler passare un periodo lontano dal gioco.

Il problema di uno stile molto aggressivo, come si può intuire istintivamente pensando alla teoria dei giochi, è che se si diffonde all’interno dell’ambiente, il vantaggio competitivo che è in grado di procurare inizialmente diminuisce e al tempo stesso espone maggiormente chi lo pratica alla varianza. Il secondo dei temi centrali per Andrea.

“Proprio in virtù della componente probabilistica del gioco, sulla singola giornata anche il più forte giocatore del mondo può perdere. Ed è esattamente quello che accade. È sul lungo periodo che il giocatore migliore si rivela migliore”.

La varianza è, detta più in soldoni possibile, l’eventualità ineliminabile che ti capitino carte pessime o, peggio ancora, buone ma comunque inferiori a quelle dell’avversario, tali che anche giocando al meglio non sia possibile vincere; rischio che diventa ancora più concreto se il livello della platea di giocatori con cui ci si confronta è alto.

E non è affatto detto che il periodo si riveli breve, perché, nonostante le persone che scommettono sui ritardi dei numeri al lotto (come se Galileo non fosse mai nato), una moneta lanciata una volta al giorno ha ogni giorno le stesse probabilità di far uscire testa o croce, indipendentemente da quello che è successo il giorno prima.

Per lo stesso principio aver avuto due settimane di carte pessime, non significa che non ve ne capiteranno altre due.

O altri sei mesi.

“Questo porta prima o poi ogni giocatore a quello che viene definito downswing, una fase negativa in cui tutto va male. E, in un senso a cui non è semplice abituarsi, è giusto così; perché in questo tipo di gioco la strategia necessariamente vincente su ogni mano non esiste, si può ambire solamente a quella vincente sul lungo periodo”.
Il problema è che nessuno può sapere quanto deve essere lungo questo “lungo periodo” per rivelarsi vincente. “I downswing quando sei un professionista creano perciò due tipi problemi: il primo è psicologico, nel senso che una parte di te incomincia inevitabilmente a pensare che forse non è tutta colpa della varianza, forse non sei poi così forte come credevi, forse hai solo avuto culo fino a quel momento, forse la festa è finita ed è ora di andare a lavorare in banca. Il secondo è che ci posso essere giorni in cui perdi delle finanziarie, e alla lunga questo può diventare un grosso problema per il tuo bankroll, il rischio è quello di andare broke”.

Tradotto in italiano: rischi di finire sul lastrico, a un pro può capitare spesso. Ma non sempre questo significa la fine, esistono, infatti, delle vie di uscita.

Strategie di riduzione del rischio, solidarietà di specie e aggressioni premeditate

L’Enada è la più grossa fiera del gioco degli operatori del gioco d’azzardo in Italia, e ha due edizioni, una autunnale a Roma e una primaverile a Rimini. Quando arrivo a quella in Romagna parcheggio vicino a una Bmw serie 7 con cerchi da venti pollici targata Caserta, sul parabrezza un adesivo che ringrazia san Francesco per la protezione.

Dentro i padiglioni c’è il solito clima da fiera professionale, un misto di testosterone da agente commerciale diviso equamente tra ragazze immagine e vaghe possibilità di nuovi affari, il tutto con contorno di cibo da aperitivo a tutte le ore.

Camminare per una mezz’oretta tra gli stand è sufficiente per capire che il poker non sta al centro del futuro dell’azzardo italiano, la novità sono i virtual, i simulatori di eventi sportivi (calcio e corse di cani e cavalli, principalmente) che consentono di abbattere i costi di realizzazione degli eventi e soprattutto di dare la possibilità di puntare ogni 5 minuti, in modo da tenere lo scommettitore dentro l’ininterrotto flow psicofisico del gioco, senza dargli il tempo di raffreddarsi.

Unica novità in cui incappo per il poker è una azienda online dell’est Europa che offre come dealer delle giovani ragazze in collegamento streaming da paesi come la Romania.

Per il resto sono i giochi da casinò a farla da padrone, con le slot e le vlt (video lottery) caratterizzate con temi a cui nessuno bada davvero: leggenda del Nilo, la spada nella roccia, Poseidone, vecchio West, Indiana Jones, chiromanti.

In un certo contrasto con il clima complessivo è un ex giocatore di poker professionista con cui ho appuntamento e che ora realizza software di gioco e preferisce non dire il suo nome. Sulla quarantina, una sciarpetta viola da intellettuale al collo, occhi che guizzano qua e là lasciando intuire scaltrezza.

“Non ti confondere, qui vogliono sembrare tutti più ricchi e importanti di quello che sono in realtà, i veri affari non si fanno in posti come questo”, si presenta. Il motivo per cui ci incontriamo è la sua passione per il poker che oggi l’ha fatto approdare al ruolo di finanziatore. “Ormai preferisco stakare giocatori più giovani, ovvero finanziarli in cambio di una parte dei ricavi. È meno stressante”.

Per chi maneggia la teoria dei giochi è normale vedere il mondo in termini di probabilità, e lo staking è la soluzione che diversi pokeristi si danno per rispondere alla varianza; e spesso questo avviene quando incominciano a invecchiare.

In pratica si tratta di fornire i soldi per giocare in cambio di una percentuale variabile tra il 30 e il 50 per cento delle vincite. Non si tratta di un prestito visto che in caso di perdita il giocatore non deve restituire i soldi. Ai tempi dell’abbondanza i professionisti vincenti si conoscevano tutti e stakavano i giovani talenti per massimizzare i guadagni. Ora sembra un meccanismo più rischioso, ma a saperci fare offre ancora rendimenti elevati, senza considerare che gli stakatori in genere non finanziano mai un solo giocatore bensì ripartiscono il rischio su una serie di giocatori che ritengono validi.

Altrettanto spesso lo staking non è gestito a sensazione ma sulla base di calcoli matematici che tengono in considerazione la rendita che si vuole ottenere e la gestione del rischio correlato. Anche se lo staking non sempre diventa di dominio pubblico, nell’ambiente sono note parecchie storie di giocatori famosi, anche italiani, che dopo un anno in cui erano andati praticamente broke, si sono ripresi grazie al provvidenziale intervento dei colleghi.

Lo staking offre una seconda possibilità ai giocatori in difficoltà, divisione del rischio e un’opportunità a chi non se la sente più di continuare a sostenere i ritmi elevati e gli stress pazzeschi del gioco professionistico, che sono fisiologicamente più adatti a un ventenne con corpo e mente al massimo della rapidità, che a un quarantenne.

Un altro metodo di finanziamento simile allo staking è quello dei giocatori che si siedono al tavolo pagati dai gestori di casinò o nei circoli illegali che abbondano anche nelle città d’Italia.

Sandro (ovviamente non è il suo vero nome) oggi è impiegato in un’azienda del bolognese, ma per alcuni anni il suo lavoro è stato sedersi ai tavoli di alcuni circoli cittadini e spennare dei malcapitati per conto dei gestori, che erano gli stessi che mettevano i soldi.

La maggior parte delle volte costruivamo intere partite attorno a un singolo fish coi soldi. Ogni tanto erano cinesi, altre volte italiani, quasi sempre comunque sembrava che non gli interessasse vincere o perdere: avevano il demone, semplicemente. Andavano in bagno e lasciavano le fiches sul tavolo, per dirti. Tolta la parte del circolo mi rimanevano anche 1300 euro al giorno, era un bell’andare anche se ogni tanto gli organizzatori cercavano di fregare anche noi sui soldi. A ogni modo non poteva durare

Il fish con molti soldi che sostanzialmente gioca per perdere nel gergo ha il nome, perfettamente conseguenziale, di whale. Al livello mondiale i whale sono i milionari (a volte miliardari) imprenditori, produttori cinematografici, gestori di fondi di investimento, banchieri di Wall Street che a intervalli regolari decidono di sedersi con i migliori giocatori del mondo e farsi mungere.

La balena più nota del mondo è Guy Laliberté, amministratore delegato del Cirque de Soleil che, secondo Pokerkingblog, ha perso online 17 milioni di dollari. Solo nel 2008.

La più ambita delle forme di riduzione del rischio per un giocatore rimane comunque la sponsorizzazione di una poker room, accordi che in genere prevedono oltre a un fisso annuale, alle volte decisamente cospicuo, anche i buy in e le spese per la partecipazione ai tornei più importanti.

La vita del torneista è possibile quasi esclusivamente grazie a sponsorizzazioni, dato che, anche se i premi sono spesso alti, la possibilità di vincerli o quella di andare a premio è statisticamente molto bassa, i costi, al contrario, sempre certi. D’altro canto i tornei sono fondamentali per le room per far parlare del poker e dei singoli player, creare mitologia attorno a certi giocatori e portare nuovi utenti sui loro siti.

Come funziona il sistema poker online

Le room di poker online sono siti che offrono tavoli virtuali per giocare a poker, di solito divisi per tre tipi di specialità: cash game (in Italia è possibile solo da luglio 2011); tornei sit’n go, che partono cioè al riempimento dei posti disponibili al tavolo; e tornei veri e propri. Ognuna delle specialità è offerta con diversi livelli di costi, a cui naturalmente sono commisurati i possibili guadagni.

Nei tornei si paga un buy in fisso e si gioca finché non si viene eliminati, nei cash game il sito incassa una rake, cioè una percentuale di ogni vincita fino a un certo massimale, per una media effettiva attorno al 3 per cento del giocato, percentuale solitamente più bassa di quelle dei casinò del mondo reale.

Questo è possibile grazie al fatto che i costi di un sito fatto di pixel su uno schermo sono molto più bassi rispetto a quelli di un casinò fatto di mattoni sulla terra, e che il digitale permette di giocare un numero più alto di mani in meno tempo; la platea potenziale è molto più ampia e i giocatori possono sedere a più tavoli contemporaneamente.

Il business online è più grande, efficiente e molto meno costoso.

La prima room ad avere una netta egemonia sul mercato mondiale fu Party Poker, sito che al momento della quotazione in borsa a Londra nel 2005 raggiunse un valore di 8,5 miliardi di dollari, più di quanto in quel momento valeva British Airways.

Party Poker si ritirò però dal mercato americano, perdendo in poche ore il 65 per cento del suo valore, dopo che Bill Frist, un senatore repubblicano che cercava un tema per lanciare la sua campagna per la Casa Bianca, riuscì a fare inserire in un decreto per la sicurezza portuale alcune misure che consegnavano il poker online a una zona legislativa quanto meno grigia.

La sua candidatura fallì, ma la legge rimase, se ne avvantaggiarono i portali che rimasero sul mercato decidendo di continuare a operare all’interno di un quadro legislativo potenzialmente rischioso. Tra questi ci fu Full tilt, la room che riuniva la maggior parte delle star del gioco come soci e testimonial, e fu tra i maggiori promotori dello star system del poker: gente di ogni tipo unita dal minimo comune denominatore di aver fatto un sacco di soldi giocando a carte.

Quest’epoca finì nell’aprile del 2011 quando, con il cosiddetto venerdì nero, il gioco fu definitivamente chiuso negli Stati uniti, le room furono messe offline e molti giocatori trovarono i loro fondi congelati. Solo alcuni, dopo parecchio tempo, riuscirono a recuperarli. Attualmente il gioco online è legale in alcuni stati americani, ma solo a livello locale.

Un torneo nella slot house Blue King di Roma, maggio 2008. (Marta Sarlo, Contrasto)

L’Italia, dal canto suo, è stata invece uno dei primi paesi a creare una legislazione nazionale sull’argomento rilasciando dal 2008 in poi licenze per poker room nazionali, le cui vincite sono già tassate alla fonte.

Le grandi room internazionali, molte delle quali hanno sede in paradisi fiscali e sono chiamate comunemente .com dai giocatori per distinguerle da quelle nazionali (.it), non sono più accessibili dal nostro paese.

Spesso non basta nemmeno usare un semplice proxy per evitare il blocco perché le più grosse room internazionali non accettano l’iscrizione di giocatori con documenti italiani.

Con qualche escamatoge tecnico è possibile giocare fuori dal circuito .it, illegalmente, sugli oscuri portali chiamati in gergo “.retard” sia per la qualità dei giocatori ai tavoli sia perché non offrono alcuna trasparenza né sulla correttezza del gioco né sulle speranze di vedere arrivare i propri soldi nel caso si dovesse vincere.

Oggi l’emigrazione in room straniere è una tentazione per due categorie di pro: quelli in cerca di ambienti meno competitivi e quelli che giocano gli hi-stakes (le partite a poste altissime) dato che il sistema italiano ha dei limiti molto stringenti: una soglia di 250 euro per i tornei e di mille per il cash game.

Per questo molti top player italiani si sono trasferiti in luoghi come Malta, la Slovenia o l’Inghilterra. Le room nazionali che hanno sostituito i .com, spesso sono semplicemente le versioni italiane delle room mondiali diventate inaccessibili.

A questa regola fanno eccezione alcune realtà, la prima delle quali è stata Gioco Digitale di Carlo Gualandri (fondatore anche di Virgilio) poi venduta all’austriaca B-Win per 115 milioni di euro, che per un paio di anni è stata la più interessante start up italiana del poker oltre che la prima room in assoluto a offrire nel 2008 la possibilità di giocare legalmente online in Italia, il tutto con soluzioni tecniche avanzate e grandi campagne pubblicitarie.

Sicurezza delle room e giocatori da bonus

Giulio Astarita è un poker manager che ha lavorato nel team originale di Gioco Digitale, per poi passare a Pokerstars, il dominatore assoluto del mercato, e infine approdare a Pokerclub, la room di Lottomatica, marchio di Gtech, la società italiana che si è fusa di recente con la statunitense Igt, dando vita a un colosso globale del settore giochi.

Incontro Astarita in uno di quegli anonimi palazzi dirigenziali romani dove bisogna lasciare un documento all’ingresso e i corridoi asettici ricordano un po’ quelli degli ospedali ma senza nessuno abbandonato in corsia a lamentarsi del governo.

Mentre parliamo, Astarita, trentacinque anni, barba corta, camicia azzurra dirigenziale, manipola soprappensiero un mazzo di carte da poker facendo sfoggio di un’abilità da prestigiatore.

Il suo lavoro è l’equivalente del responsabile della parte del saloon in cui si gioca a poker, e uno dei suoi compiti è rendere impossibili o quanto meno molto difficili le infiltrazioni dei bari.

La sua storia è cominciata come pokerista amatoriale e blogger appassionato del gioco, quando ancora studiava economia e poi come pokerista via via più capace fino all’ingresso in ruoli gestionali in tre delle più grosse room sul mercato. “Di questo gioco mi ha sempre affascinato l’ambiente competitivo, indipendentemente dal livello o dalla room dove si svolge”, continua a spiegare mentre le carte passano veloci da una mano all’altra, con un’affermazione che suona retorica solo fino a un certo punto. “Tra giocatori ci sono spesso rivalità anche aspre, ma a me piace l’idea che questo sia uno sport in cui tutti possono avere una chance, uno sport romantico. Poi ovviamente devi meritartelo, il poker è meritocratico”. Perché questo sia possibile però bisogna garantire condizioni uguali per tutti “evitare le pastette e furbetti del quartierino. Nessuna poker room può fare a meno dei giocatori quindi deve offrirgli un ambiente sicuro”.

Le poker room devono perciò gestire i giocatori che tentano una partita in collusion sui tavoli o al più del softplay concordato, cioè giocare, a varie intensità, in combutta contro gli altri. Due giocatori segretamente d’accordo possono prendersi un grande vantaggio sugli avversari, gruppi più ampi possono praticamente pilotare l’esito di una partita, e questo è illegale.

Lo stesso risultato si può ottenere con il multiaccounting, una pratica che consiste nell’aprire più acconti fraudolenti, gestiti in contemporanea dalla stessa persona, magari usando le identità di amici, nonni, zie e nipoti.

Garantire l’equità del gioco attraverso la sorveglianza è fondamentale anche per non seguire l’esempio di alcune room, diffuse in modo particolare in alcune zone del paese, che in passato hanno perso rapidamente mercato fino a scomparire, quando tra i giocatori si è diffusa la voce che il gestore non sorvegliava efficacemente questo tipo di rischi.

“Teniamo sempre in considerazione le segnalazioni dei giocatori di cui conosciamo l’affidabilità”, spiega Astarita, “inoltre sorvegliamo gli ip e abbiamo un team di matematici ed ex giocatori che usano software di analisi delle mani per individuare quelle sospette. A dire il vero c’è anche gente che si fa gli accordi sulle chat e allora lì prenderli è proprio facile. Purtroppo però in base alla legislazione attuale non possiamo sequestrargli i soldi, quello può farlo solo un giudice”.

Oggi, però, affinati i software di controllo, non è più questo il problema principale. Con il livello che si alza, l’ambiente che si fa competitivo e i margini di guadagno che si assottigliano è nata una nuova classe di player, i cosiddetti rakeback pro. “Un giocatore che gioca moltissime mani, può ricevere indietro fino al 70 per cento dei soldi di rake, quelli cioè prelevati dalla room come commissione per il servizio”, continua Astarita, “e questo può fare la differenza. Un giocatore che sarebbe in positivo di poco o in pari, recuperando una parte della rake può andare in positivo anche di molto, perché il numero di mani giocate da questo tipo di pokeristi è elevatissimo”.

Il rakeback può fare la differenza tra l’essere un professionista o meno e la competizione tra le room nell’offerta di questo tipo di bonus sempre più ampi ha assottigliato parecchio i margini.

“Oltre a ciò bisogna mettere in conto anche i disastri fatti dalle scuole di poker, che hanno rovinato il field rendendolo troppo competitivo”.

Da bravo giocatore Astarita vede chiaramente come alla diffusione del sapere sul poker, che prevede ampie dosi di teoria dei giochi, sia mancata proprio la capacità di applicare questo approccio a se stessa. “Ci sono giocatori molto forti che invece di sfruttare la loro conoscenza sul lungo periodo per guadagnare poco, ma moltissime volte, hanno preferito guadagnare di più ma una volta sola. Gli orizzonti attesi erano assolutamente chiari e svantaggiosi”.

Le scuole di poker online hanno sostanzialmente permesso un’accelerazione senza precedenti ai nuovi giocatori.

“È stato come superare di colpo dieci livelli, senza imparare le cose sul campo, si sono potuti risparmiare anni e anni di esperienza”. Da questa considerazione partono i piani per il futuro della sua room. Deve diventare una room divertente, frequentata cioè da tutti i tipi di giocatori, compresi quelli – con tutto il rispetto – scarsi: un luogo dove si può ancora vincere.

“Se sono tutti fortissimi, la room può anche chiudere, è come un ecosistema: senza pesci piccoli finiscono per estinguersi anche quelli grandi”.

Nonostante tutto quando ci salutiamo Astarita si dice ottimista, o meglio probabilisticamente ottimista: “Credo che si possa fare meglio, se non altro perché oggi il mercato ha sicuramente molte inefficienze dovute a tutti – operatori, giocatori, regolamentazione – ed è demonizzato spesso senza motivo. Bisognerebbe almeno non dimenticare che il poker è un bello sport”.

Portare gente dentro il gioco

Fino a oggi i metodi per portare gente dentro il gioco sono stati più o meno sempre gli stessi: grandi campagne mediatiche con testimonial che con il mondo del poker avevano poco a che fare – il caso più famoso probabilmente è lo spot di Francesco Totti per PartyPoker. Altre strategie di promozione prevedono grossi eventi con primi premi molto alti, la creazione di uno star system di giocatori nostrano, un canale digitale dedicato interamente al poker, un reality show come La casa degli assi, realizzato da Mediaset in partnership con Pokerstars, nel quale si entra per casting o vincendo un torneo.

Il casinò Perla a Nova Gorica, in Slovenia, luglio 2011. (Fabrizio Giraldi , Luzphoto)

Il rapporto tra room e tornei dal vivo è simbiotico, nel senso che le room li sponsorizzano e il torneo, con il suo gotha di giocatori seduti al tavolo finale, rappresenta l’olimpo che i giocatori da cameretta sperano prima o poi di raggiungere.

Media specializzato, media finanziato

Altrettanto simbiotico è il rapporto tra i media specializzati e le room. Esiste infatti un’ampia copertura mediatica di settore di buon livello, finanziata in massima parte dalla pubblicità acquistata dalle stesse room, la diversificazione delle quali garantisce un certo grado d’indipendenza, mentre la passione dei giornalisti di settore fornisce un livello di professionalità mediamente più alto di quello di molti media generalisti. Le testate principali del poker italiano sono i cartacei Poker Sportivo e Card Player e le testate online AssoPoker, Italiapokerclub, Pokeritaliaweb e, infine, PokerNews che è l’organo giornalistico della room Pokerstars.

Oltre alla copertura specializzata, grazie anche all’amore per il gioco di giornalisti come Fabio Bianchi della Gazzetta dello Sport, è nata negli anni una copertura sui media sportivi generalisti che, seppur con un livello di dettaglio inferiore, diffondono a un pubblico più ampio le più importanti news riguardanti il gioco. In un’epoca di crisi del giornalismo e di difficoltà dei giornali online a generare profitti, i media specializzati sembrano potersi permettere cose fuori della portata dei giornali web.

Anche in questo campo il poker si è dimostrato per molti un’opportunità. Rudy Gaddo è un giornalista trentino che ha abbandonato qualche anno fa un posto fisso nell’edizione locale di un quotidiano nazionale per diventare free lance specializzato in poker, uno dei suoi ultimi lavori è la serie di minireportage quotidiani Vegas2italy realizzato da Las Vegas durante le World series, e mi spiega come funziona.

“Nel mondo del poker accade spesso che i giornalisti vadano ai tornei all’estero spesati dagli organizzatori. Altre volte devono pagare loro, dipende da quanto è importante il sito in relazione al torneo: più sei importante, meno ovviamente spendi. Tornei a parte, ci sono le pubblicità, i banner sui siti, possono esserci degli accordi con i gestori della room per cui se un lettore si iscrive a un portale passando dal giornale, poi per un periodo anche molto lungo la testata prenderà una parte della rake che quello genererà giocando”.

Accordi di questo tipo, pur non producendo in numeri assoluti cifre impressionanti sul singolo giocatore, sono incomparabilmente più redditizi del pagamento generico per visualizzazioni (che al contrario è molto basso) e spiegano perché il giornalismo – nei settori dove il flusso delle news genera o quanto meno affianca un movimento di denaro – se la cava molto meglio di quelli che non hanno un target di consumo ben definito e vendibile. Una letterina dal futuro del giornalismo gratuito online dove in assenza di un prezzo di acquisto della copia è sempre il lettore a essere il prodotto.

Il giornalismo specializzato del poker, grazie a queste risorse, produce una miriade di approfondimenti, testi e video, sul gioco, interviste ai top player, trucchi da usare al tavolo, analisi degli ultimi tornei e delle prestazioni dei giocatori più importanti.
“Il livello dei migliori italiani ormai è molto alto, i top giocano già al livello mondiale, non europeo. L’unica debolezza che posso vedere in alcuni dei nostri pro è che soffrono ancora troppo la varianza, se vanno in downswing per un anno non si riprendono più”.

Per quanto riguarda la crisi del comparto, invece, Rudy non vede molte altre soluzioni che l’istruzione di un mercato europeo “per dare ossigeno e permettere ai top player di sopravvivere e agli occasionali di ruotare, divertendosi senza danneggiarsi economicamente”.

L’ambiente pokeristico della crisi spiegato matematicamente

Alla base del calo di redditività del gioco c’è il principio illustrato da Nate Silver, ex analista finanziario ed ex giocatore di poker, oggi fondatore e direttore di fivethirtyeight.com, sito che applica il calcolo di probabilità a ogni tipo di attività, realisticamente anche a quante siano le probabilità che un altro gatto di proprietà di pokeristi sia morto mentre leggevate questo pezzo.

Secondo Silver, nel poker il rapporto tra conoscenza del gioco e redditività segue la ben nota, in altri campi, curva di Pareto. Questo significa che al primo 20 per cento di studio del gioco corrisponde l’acquisizione dell’80 per cento dell’abilità, mentre il restante 80 per cento di conoscenza produce un incremento di solo il 20 per cento, sostanzialmente un perfezionamento.

In una prima fase quindi, un mercato pieno di neofiti offre un vantaggio competitivo enorme a chi ha anche solo un 20 per cento di conoscenza del gioco. Traduzione: si fanno un sacco di soldi facili. La differenza competitiva in questa fase è molto maggiore della discrepanza che c’è tra due giocatori di cui uno ha una conoscenza del 40 per cento e uno del 100 per cento, sempre tenendo conto che il concetto di “conoscenza del gioco” è ovviamente un’astrazione e non essendo il poker un gioco risolto matematicamente, nessuno ha una conoscenza pari al 100 per cento.

Ora, questi livelli di conoscenza modificano, secondo Silver, anche i rendimenti attesi dei giocatori al tavolo. A un tavolo di dieci persone con almeno un fish i giocatori che possono ragionevolmente attendersi di andare in attivo sono cinque, con un sesto che andrà in pari. Questa è quella che tutti, tranne probabilmente il fish, chiamerebbero una redistribuzione efficace.

Se a questa situazione levate il giocatore peggiore del tavolo, le cose cambiano bruscamente: da cinque che erano, solo uno sarà il giocatore ad andare in positivo; un altro potrà ambire ad andare in pari e ben sette giocatori andranno in negativo.
Con un vincente su nove, all’improvviso il poker non sembra più un gioco così interessante.

Torniamo per un momento alla frase iniziale tratta da Rounders. “Se non individui il pollo nella prima mezz’ora al tavolo, allora tu sei il pollo”. Questo è sempre vero, ma non per le stesse ragioni, potrebbe anche darsi che al tavolo di polli non ce ne siano proprio, ma questo rappresenta comunque un problema, perché come abbiamo visto a un tavolo del genere non dovremmo sederci.

In gergo questo è il processo chiamato “ispessimento del field”.

Assieme alle ben note peculiarità italiane come crisi economica, legislazione incompleta, valore molto irregolare del management, declino della moda dell’hold’em ed emigrazione di molti pro nei paesi dove è possibile giocare sui .com, questo è il fenomeno che ha portato alla situazione di oggi.

Non è andata sempre così: nei primi due anni del poker legale la raccolta fu di 4,6 miliardi (2009-2010) e continuò a crescere fino alla metà del 2011. Il numero non rappresenta l’utile dei gestori (come talvolta fanno intendere alcuni giornalisti con il generatore automatico di marcio di sistema), bensì i soldi giocati, che in larga maggioranza, come si può vedere dalle tabelle qui sotto, tornano ai giocatori stessi. Tra giocato e utili esiste comunque una correlazione ineliminabile, e la flessione drammatica che negli ultimi tre anni ha portato via circa la metà del mercato ha quindi colpito entrambi.

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La crisi devastante del mercato ha inoltre rafforzato la room egemone Pokestars.it che alla fine del 2014 ha raggiunto il 50 per cento del mercato dei cash game e il 60 per cento di quello dei tornei.

Come sopravvivere al nuovo ambiente

Gianpaolo Eramo mi raggiunge in un bar in una piazza del quartiere Isola, a Milano, poco lontano da casa sua. È quasi mezzogiorno ma mi confessa di essersi svegliato da poco, il che me lo fa sentire istintivamente affine. Gianpaolo, 32 anni, laurea alla Bocconi e passato da analista in un fondo di venture capital, ha lasciato tutto per diventare, come Andrea Piva, uno dei primissimi giocatori dell’online in Italia.

“All’inizio quando perdevo pensavo che le room fossero truccate, poi sono finito sul forum 2plus2 e ho scoperto che per giocare a carte si doveva studiare, mi si è aperto un mondo, era un’idea che non mi era mai passata per la testa. Era il 2004. Tempo dopo facevo tranquillamente diecimila euro al mese con il poker e licenziarmi dal lavoro era diventato un obbligo”.

Con il cambiare del mercato e la riduzione dei profitti, piuttosto che diventare un rakeback player ha scelto un’altra via:

Per avere il livello più alto di rimborso devi spendere circa dodicimila euro al mese di rake. Ora, se riesci ad avere questo livello, l’anno seguente puoi rientrare del 66 per cento della tua rake, contro il 35 per cento del livello precedente. Questo significa anche 50mila euro in più a fine anno. Ci sono giocatori che vanno in perdita un anno con l’idea di passare di livello l’anno successivo, a quel punto possono guadagnare anche 60-70mila euro, già tassati, di rakeback, praticamente essendo andati in pari o quasi ai tavoli. L’obiettivo quindi diventa non perdere. Per me è follia, in pratica vivi di quello che il sito ti restituisce di commissione. È vero che conta quanti soldi fai alla fine, però a quel punto piuttosto torno in ufficio perché comunque devi giocare otto ore al giorno tutti i giorni tutto l’anno per fare un numero sufficiente di mani, e il poker l’ho scelto anche per la libertà. Se guadagni uno status così alto poi per non perderlo diventi quasi come un dipendente del sito, sei virtualmente condannato a giocare a vita su quel sito.

Gianpaolo in ufficio non ci è tornato, e non è nemmeno diventato uno schiavo da commissione di un sito, ha scelto una via un po’ più complicata. “Mi sono buttato sul live, gioco di media 3-4 volte alla settimana, tra periodi da due partite alla settimana e periodi in cui gioco undici ore di seguito per quattro giorni”.

Gioca nei casinò statali, in case private e nei circoli, dove la situazione è ancora in un limbo legislativo, perché è stata fatta una legge per la loro legalizzazione nel 2009 ma non il suo regolamento attuativo e le mille licenze promesse sono rimaste pendenti.

Se volete giocare a poker a soldi con i vostri amici in Italia e volete essere assolutamente sicuri di farlo legalmente è bene che abbiate con voi dei computer, perché online è sicuramente legale, mentre se vi guardate in faccia dipende dalle interpretazioni e da che tipo di partita giocate.

La vita di Gianpaolo oggi scorre nella ricerca della “partita bella”, quella cioè dove ci sono il cash flow e qualche amatore.

“Giocando live, incontri molti personaggi interessanti che nella vita hanno fatto delle cose, imprenditori, gente con delle storie, persone da cui puoi sempre imparare qualcosa. Già questo è bello. Aggiungici che anche se nel gioco devi essere spietato, fare quattro chiacchiere non è obbligatorio ma a me piace molto. Il problema però è che con la crisi ci sono molti meno soldi, c’è gente che viene al casinò con 500 euro e se li deve far bastare per tutta la sera”.

Proprio per questo sta esplorando nuovi mercati. “Ultimamente sto andando all’estero a cercare nuovi field, posti come il Montenegro per esempio. Lì c’è ancora la gente che arriva a giocare e caccia di tasca la fascetta bella spessa di contante. E non c’è il rischio che alle due e mezza ti chiudano il tavolo perché i dipendenti sono statali e vogliono andare a casa, come succede nei casinò italiani. Laggiù si gioca finché c’è partita”.
“E dove in Montenegro?”.
“Budva”.
“Budva eh? E quando sarebbe esattamente?”.

Montenegro, una razza, una faccia. Più o meno

Appena sceso a terra, il direttore della grande compagnia civilizzatrice (ormai lo sappiamo che il commercio è l’avanguardia della civiltà) aveva perso di vista il battello.
Joseph Conrad

Il cameriere segaligno mi racconta che l’italiano l’ha imparato in un ristorante di New York dove ha lavorato per vent’anni, prima di tornare qui a Budva, tra le montagne e il mare. Poi se ne va e lo osservo discutere a piccole frasi nervose con un pescatore subacqueo appena rientrato a mani vuote con il suo gommone.

Il branco di piccoli cefali allegorici si è ormai disperso quando Gianpaolo e la sua ragazza mi raggiungono per il caffè, sono arrivati il giorno precedente con un volo da Milano con scalo a Belgrado. Gianpaolo è carico, il suo business qui sono i cash game notturni ma sta meditando di iscriversi anche al torneo.

“Non è grande come quello di qualche mese fa”, mi spiega pensoso, poi è tempo di fare un primo giro al casinò, in cima all’albergo dove siamo tutti alloggiati a spese dell’organizzatore, anche io, nella mia prima esperienza da giornalista embedded.
Di diritto mi spetta quindi una stanza con letto matrimoniale e terrazza “vista mare” come ha tenuto a sottolineare, in italiano, il facchino che aveva insistito per portare la mia valigia praticamente vuota.

Fa niente che essendo un albergo costruito sostanzialmente sul bagnasciuga tutte le stanze fossero “vista mare”: gli avevo lasciato la generosa mancia di chi si compiace di essere per una volta dalla parte giusta della barricata, poi me n’ero stato per un po’ sdraiato ad ascoltare il rumore del mare mischiarsi con le voci dei bambini che giocavano in spiaggia. Non tutto può essere perfetto.

Avendo una certa promiscuità geografica con l’Italia, unita a una indubbia, seppur a tratti irriverente, vocazione a farsi colonia di fronte al richiamo “civilizzatore” dell’euro, il Montenegro è un luogo dove viene molto facile andare al bar e ordinare nella propria lingua madre, con quell’autismo linguistico altrimenti noto nel mondo come “essere francesi”. Terre brulle, quelle del Montenegro, e in grado di fornire anche agli italiani, storicamente poco avvezzi, insidiose emozioni coloniali.

Una tentazione a cui soccomberò più volte in tre giorni chiedendo “un succo di arancia” e rischiando perennemente di vedermi servito un tacchino ripieno.
Quel che è peggio è che questa combinazione di sudditanza linguistica, azzardo, acque cristalline, cocktail a due euro e una generale tendenza a fare poche domande e di socchiudere sospettosamente gli occhi in direzione di chi le pone, fa venire in fretta voglia di indossare completi di raso bianchi e acquistare acri di terra, basta che siano misurati con quest’unità di misura così intrinsecamente nobiliare e colonialista.

Ho già intuito tutto questo, anche se forse non ancora con tale livello di dettaglio, quando ho passato per la prima volta la chiave elettronica della mia camera nel tornello d’ingresso del casinò, e mi hanno squadrato una ragazza e un ragazzo di pura razza balcanica, entrambi con il completo scuro e gli angoli della bocca all’ingiù che da queste parti sembrano essere di ordinanza.

Il casinò Maestral non è molto grande, vicino all’entrata ci sono le slot, la roulette e gli altri giochi dove il banco vince sempre, il “quartiere Disperazione” dove né io né la stragrande maggioranza dei giocatori di poker metteremo mai piede se non per passarci attraverso. Lì dentro, donne con i volti dell’est e coriacei maschi del sud Italia, tutti più o meno attorno ai sessant’anni, schiacciano senza sosta bottoni luminosi, assorbiti da un flusso di gioco che è l’unica vera soddisfazione che avranno in cambio dei loro soldi.

Il torneo di hold’em lo organizza Live event international, un nuovo gruppo di promoter capitanati da Mike Peltekci, un giocatore turcoamericano ex presidente del casinò Merit di Cipro.

Grosso e compatto come uno di quei tondi di calcestruzzo che stanno in mezzo alle rotonde a sostenere i cartelli stradali, Mike ha l’aria di uno che si sta giocando tutto ma che sa anche come farlo, e probabilmente proprio per questo è ovunque: nella sala del torneo, in quella dei cash game, al ristorante, al bar, in terrazza, all’ingresso. Come ci riesca non mi è del tutto chiaro ma, indossando pantaloni corti e capellino da baseball e con l’ausilio di una piccola corte che esegue prontamente i suoi ordini, veglia notte e giorno sulla sua nuova creatura imprenditoriale, con silenziosa ma efficiente ubiquità.

Della squadra di Mike quella deputata a parlare con me è Micaela, una donna sui trentacinque anni. Micaela è magra, ha occhiali da vista Gucci, indossa un tailleur scuro, una gonna corta di inserti di pizzo e prova ad avere la stessa calma e inesorabilità di Mike, ma non riesce a nascondere molto bene i suoi dubbi interiori sul cosa cazzo ci faccia un giornalista non specializzato in poker al suo torneo e mi tratta come una mina vagante che potrebbe rovinare l’investimento della sua vita – vita che, si capisce senza bisogno di molte parole, non deve essere stata facile e che, si intuisce ancora più agilmente, lei deve aver sempre aver affrontato con decisione.
Fortunatamente per lei, a me interessa molto più capire che denunciare, anche perché non saprei cosa, e alla fine riesco a farmi spiegare come funziona.

Un’organizzazione di queste dimensioni funziona soprattutto con il passaparola che oggi supera agilmente i confini nazionali sulle ali di internet e degli smartphone. Il promoter ha un sito internet e l’evento è pubblicizzato sui portali di settore, ma quello che conta davvero è la rete di giocatori nei paesi del Mediterraneo, una serie d’intermediari di fiducia in grado di diffondere la notizia di quella che Gianpaolo chiama “partita bella”.

Ai giocatori-capobastone come Gianpaolo offrono l’alloggio gratuito per tutto il periodo del torneo. Un altro modo di soggiornare gratis è garantire una certa quantità di soldi giocati tra torneo e tavolo: è tradizione infatti che il giocatore che spende parecchio non venga annoiato con questioni ineleganti come “il conto dell’albergo”.

I player qui sono soprattutto montenegrini, serbi, russi, libanesi e italiani; invece, i dealer, coloro cioè che danno le carte, sono importati direttamente dall’Ucraina, la ragazza in fuseaux che offre massaggi a cinque euro ai giocatori, invece, è di qui.

Sulla carta sarà anche una bella idea, ma nella pratica i giocatori sono troppo concentrati per queste cose e in due giorni non la vedrò massaggiare nessuno, tanto che alla fine sarà convertita in cameriera.

Il montepremi di questo torneo è di centomila euro, non particolarmente alto ma con il pregio di essere garantito a prescindere dal numero di concorrenti che alla fine, compresi i ritardatari, saranno 129. Micaela mi assicura che alle altre loro date allo Splendid – sempre a Budva e a un sobrio casinò a forma di arca di Noè a Cipro – le cifre in palio sono più alte e ci sono più partecipanti.

Al decimo nervoso “perché me lo chiedi?” di Micaela, inframezzato dalla continua promozione delle prossime date dell’organizzazione, decido che può bastare.
In fondo al salone ci sono le postazioni dei mezzi d’informzione ovvero Balkan Poker News, l’edizione locale del braccio mediatico di Pokestars, capitanata da una, almeno per me, bella fotografa bionda di Belgrado a cui scroccherò delle foto assolutamente inservibili solo per rivolgerle la parola.

Giocatori al Rio hotel di Las Vegas, luglio 2009. ( Ron Haviv, VII/Luzphoto)

All’altra estremità c’è lo schermo che segna il numero del livello in corso, ovvero delle sessioni da due ore in cui è diviso il torneo, la media di chips in mano ai giocatori, quelle delle chip leader e le cifre dei bui, che aumentano all’aumentare del livello, rendendo il gioco progressivamente più aggressivo e impedendo così al torneo di durare sei mesi.

Siccome alla fine gli iscritti non sono tantissimi e le probabilità sono quindi un po’ più vantaggiose del previsto, Gianpaolo decide di entrare nel torneo, paga il buy in di 800 euro, prende il suo blocco di fiches e si sistema a un tavolo nel mezzo della sala.

Per gli osservatori esterni lo svolgersi di un torneo dal vivo è un evento di noia rara e cristallina. Dimenticate i format televisivi: qui siamo in uno stanzone con una quindicina di tavoli verdi, un centinaio di persone che fanno ta-rap, ta-rap con le fiches, in gran parte ascoltano musica con cuffie o auricolari, qualcuno indossa occhiali o cappelli, vecchi trucchi da pokeristi per coprire i tell fisici.

Chi, come me, ruota attorno ai tavoli senza giocare non è ben visto per il semplice fatto che nessuno sa se siete in combutta con qualche giocatore e, ovunque vi sediate, è facile che abbiate visuale su delle carte, o che qualcuno pensi che ce l’abbiate, e si stia preparando a incazzarsi con voi. Già il poker in tv, dove si sanno che carte i giocatori hanno in mano grazie alle telecamere incassate nei tavoli, è relativamente complicato da seguire se non siete un giocatore abituale; un torneo dove non sapete le carte di nessuno e anzi dovete tenervi a una distanza di sicurezza dal tavolo diventa in fretta meno attraente della piscina dell’albergo.

Ed è quindi con grande dispiacere che finisco con i piedi a mollo, e il corpo placidamente immerso nel sole di fine giugno a ripassare quello che ho imparato sui tornei. O almeno così si dice. A ogni modo per un organizzatore di piccole dimensioni come questo non è facile farsi strada in un mondo molto competitivo. Gli eventi più famosi del mondo sono il circuito World series of poker (Wsop), il World poker tour (Wpt) e l’European poker tour (Ept).

Vincere una specialità in ognuno di questi tre circuiti è detto “triple Crown”, cosa che è riuscita a pochissimi giocatori al mondo, e a cui il genovese Rocco Palumbo è abbastanza vicino, avendo vinto al Wsop e al Wpt, e aspirando quindi solo all’Ept. Dei tre, però, il torneo dei tornei è senza dubbio il Wsop, ovvero le World series di poker di Las Vegas.

Le world series

La sua storia comincia con la partita più famosa del secolo che si svolse al casinò Horseshoe della famiglia Binion nel 1949, tra Nick “il Greco” Dandalos, arrivato in città dalla east coast in cerca di una sfida, e Johnny Moss, chiamato da Dallas proprio dal tenutario Benny Binion per accettarla.

Il match durò cinque mesi, con intervalli per dormire ogni quattro giorni, pause che spesso Dandalos passava a giocare a dadi in un’altra ala del casinò. Alla fine delle venti settimane di gioco, il Greco si alzò e con un sorriso disse che poteva bastare così. Aveva perso due milioni di dollari.

Poco dopo Benny Binion perse per un periodo la proprietà del casinò per poi riconquistarla anni dopo e organizzare un’altra epica partita pubblica.

Era il 1970 e gli iscritti erano sette: fu la prima edizione delle World series. Nell’edizione del 2006, spostata al Rio, i partecipanti erano diventati 8.773, un numero che si era impennato a partire dal 2003 in virtù del Moneymaker effect. Nel 2014 si sono ridotti a 6.683, ma il numero di eventi spalmato lungo un mese è arrivato, dalla singola specialità del 1970, alla folle cifra di 65.

Vincere un evento delle World series dà diritto al famigerato “braccialetto”, un onore che in Italia possono vantare in sette: Valter Farina, Dario Alioto, Dario Minieri, Rocco Palumbo, Andrea Suriano e, unico ad averne vinti due, Max Pescatori, detto il Pirata o il Pesca, il veterano dei giocatori italiani che avevo chiamato in vista della discesa in Montenegro.

Il Pesca, milanese, è arrivato la prima volta a Las Vegas all’età di 23 anni come turista, un mese più tardi viveva lì, dopo essere tornato in Italia per vendere l’automobile. A Las Vegas ha cominciato come croupier nei casinò Gold coast prima e Texas station poi: “Non mi pareva vero che mi pagassero per giocare”, dice con un accento milanese che resiste senza problemi agli anni negli Stati Uniti.

Ai tavoli che frequentava dopo il lavoro ha imparato il mestiere dai pro americani, assimilando trucchi, esperienza, fiuto che gli hanno permesso di rimanere sulla cresta dell’onda nonostante l’arrivo negli anni di almeno tre ondate di giocatori più giovani.

Pur essendo un veterano in un ambiente pieno di giovani barracuda, Pescatori è ancora un cattivissimo cliente pieno di mestiere da trovarsi al tavolo e continua a fare risultati importanti. La costanza di rendimento gli ha permesso di essere interrottamente sponsorizzato dall’avvento del poker online in Italia fino a oggi.

Quando gli ho chiesto quanto ha contato in questo la costruzione del personaggio, cose come la bandana tricolore che usava nei primi tempi, mi ha risposto: “Quella me la mettevano in America perché dicevano che avevo l’accento di New York, e io invece volevo si sapesse che ero italiano. Anni dopo quando tornavo in Italia c’era gente che diceva che ero americano, uè ma quale americano?”.

E la differenza tra online e live? “La differenza più grossa è che online si è più aggressivi, è più facile andare in all in perché tanto dopo cinque minuti parte un altro torneo, e in generale c’è più gente che non sa cosa sta facendo ma al tempo stesso molta più matematica. Il profiling live, la schedatura dell’avversario, nel live si fa invece prima di tutto osservando le apparenze: una ragazza giovane al tavolo sarà probabilmente la fidanzata di un altro giocatore, quindi una giocatrice più o meno amatoriale, un uomo di 75 anni sarà un amante del poker ma è improbabile che il suo gioco sia particolarmente aggressivo. I tell comunque in genere si guardano sugli amatori, non sui professionisti, sui professionisti si guardano altre cose”.

Ne parlo la sera a cena, nel porto di Budva, con Gianpaolo, che è un po’ provato da tavoli notturni e torneo, mentre io, dal canto mio, sono abbastanza soddisfatto della mia abbronzatura.

Be’ nel live vedi le persone in faccia e ci sono tante cose che ti segnalano un amatore, per esempio la dimensione delle scommesse dei pro è grosso modo standard, ci sono delle progressioni in base alle chips, alla fase della partita, eccetera lo scopo è rendere difficile all’avversario capire cosa hai in mano. Uno che scommette cifre a caso è chiaramente un amatore. Il bluff dal vivo è molto raro, anche perché, nonostante quello che si dice, non è mai facile da fare nemmeno per un pro. È più probabile che sia un amatore a metterti in difficoltà con un bluff perché se è uno con i soldi, di una mano da tremila euro può non fregargliene niente, mentre per te non è mai proprio indifferente. Per quanto riguarda il travaso tra online e live bisogna distinguere tra fenomeni e gente brava. I fenomeni possono venire dall’online e spaccare tutto anche ai live, ma sono pochi. La maggior parte dei giocatori online deve maturare con il tempo. Sotto i trenta sono pochi i giocatori online veramente pericolosi dal vivo.

Uno di questi è sicuramente Mustafa Kanit, detto Mustacchione, nickname online Lasagnamm, 23 anni, di Novara, residente a Londra per giocare sui .com, e 4° a livello mondiale nella classifica dei best poker player del 2014.

Mustafa Kanit durante una partita. (Neil Stoddart , Big Slick Pictures )

Dopo cena io, Gianpaolo e la sua ragazza camminiamo verso la cittadella del centro storico di Budva, superando una serie di yacht di lusso alla fonda fino a giungere davanti a un locale all’aperto davanti alle mura dove alcune casse auto amplificate distorcono musica fidget e delle ragazze con gambe lunghe come l’autostrada adriatica cercano di tirarti verso i tavolini. Sullo sfondo un maxischermo trasmette una partita dei Mondiali, Gianpaolo gli dà uno sguardo preoccupato. In questi giorni sta scommettendo abbastanza pesante sulle partite di calcio, la fortuna però non sembra essere particolarmente dalla sua.

“La varianza…”. Provo a buttare lì a testimonianza del fatto che qualcosa sto imparando pure io nonostante il mio cervello non proprio matematico. “Già”, dice lui, giustamente poco impressionato dai miei progressi. Molti giocatori di poker non si limitano alle carte e spesso sono proprio i giochi collaterali a rappresentare per loro uno dei pericoli più grossi.

The ballad of the small player è un libro di Lawrence Osborne su un giocatore inglese di baccarat disperso fisicamente e spiritualmente a Macao, in Cina. Lord Doyle, così si chiama il protagonista che non è veramente un nobile ma un truffatore, è un giocatore d’azzardo terminale, di quelli che ormai non giocano più per vincere e nemmeno per giocare, ma per perdere, e nel suo percorso di perdizione finisce per somigliare a un preta, il fantasma affamato che contraddistingue uno dei sei regni dell’aldilà buddista.

Questi spiriti della tradizione sono animati da fame e sete insaziabili e vivono in un eterno stato d’inestinguibile bisogno, il che li rende un’allegoria esatta dell’azzardo che ha rotto ogni limite e si è impossessato di un uomo fino a renderlo una marionetta nelle sue mani.

Il giocatore di poker è l’azzimato professionista che abita nella casa di fianco a quella del fantasma affamato. Ogni tanto, quando nessuno lo vede, non riesce a trattenersi e prova a scrutare tra le tende del vicino dalla sua finestra, in cerca di qualche movimento, di un’ombra di quel mondo condannato eppure in qualche modo attraente. Sa bene che si tratta di una pulsione pericolosa, potenzialmente mortale, e sa altrettanto bene che se anche nella sua vita non lo incontrerà mai, non potrà mai dimenticarsi che lui e lo spirito abitano a pochi passi. Dominare la sete e la fame insaziabili dell’alea è l’abilità centrale di un giocatore, per non passare nell’altra parte del casinò, il quartiere Disperazione dove luccicano le slot e il banco vince sempre.

Marco Materazz e l’operazione All in

Il giorno seguente incontro Gianpaolo al bar fuori della sala del torneo, sta discutendo con degli amici italiani dell’eventualità di scambiarsi delle quote di minoranza delle proprie partecipazioni al torneo, una pratica diffusa tra i torneisti professionisti per ridurre il ruolo della varianza.

Spesso si scambiano quote in modo che, male che vada, se uno dei due dovesse vincere o andare a premi, si riuscirebbe a coprire quanto meno le spese dell’altro.
Questo meccanismo diventa sostanzialmente inevitabile nei grandi tornei con buy in mostruosi, come il Big one for one drop, in cui il biglietto d’ingresso costa un milione di dollari e il primo premio è di 15 milioni.

I giocatori professionisti non pagano mai interamente buy in del genere, che sarebbero letali per il loro bankroll e assolutamente ingiustificati da un punto di vista probabilistico, ma vendono le quote, talvolta anche su Twitter come fa il canadese Daniel Negreau, uno dei più forti giocatori del mondo.

A metà del pomeriggio, nella sala tornei, l’unico guizzo che non sia dentro le menti dei giocatori avviene quando un gigante al tavolo prova ad abbrancare la massaggiatrice per darle un bacino sulla guancia e lei si svincola con saggezza antica.

Poi nella classifica dei primi dodici per chip count appare per la prima volta un certo “Marco Materazz”, senza “i”. Me lo faccio indicare e scopro che a guardarlo da vicino non somiglia granché all’ex giocatore dell’Inter. In realtà il nome è falso, si tratta di una contromossa compiuta da un giocatore italiano sull’onda dell’operazione “All in” della guardia di finanza, che nel 2011 ha indagato per evasione fiscale molti giocatori di poker italiani che avevano vinto o erano andati a premio in tornei all’estero, spesso in paesi della comunità europea.

Molti però sono stati i punti controversi dell’operazione secondo i giocatori e secondo Massimiliano Rosa, legale di alcuni di loro e portabandiera della lotta all’operazione.

In primis ci sarebbe la questione della violazione del principio di non discriminazione, previsto dall’articolo 56 del trattato Ue, per cui sarebbe illegittima la pretesa italiana di assoggettare a imposizione le vincite provenienti dall’estero dal momento che quelle conseguite in patria sono esenti da tassazione. Diversamente, sostiene il legale, si disincentiverebbero i cittadini italiani che vogliano andare in case da gioco straniere, violando così il principio di libera circolazione di persone, servizi e capitali all’interno del mercato comune.

Sempre secondo Rosa “la questione non si limita però alle vincite all’interno della comunità europea, ma riguarda anche quelle ottenute al di fuori dell’Ue, se il paese in questione ha stipulato con l’Italia un accordo bilaterale contro le doppie imposizioni, modello Osce, conformemente al divieto di doppia imposizione, nell’ipotesi in cui la vincita abbia già scontato una tassazione alla fonte presso il paese estero di provenienza”.

A questo si aggiunga anche che quella di giocatore di poker non è una professione riconosciuta dal fisco italiano, per cui non è possibile per i pro scaricare le spese di spostamento, alloggio e buy in dei tornei; e infine, la cosa forse più clamorosa di tutte: secondo la difesa dei giocatori, la guardia di finanza potrebbe avere usato all’inizio come fonte il database pokeristico Hendonmob, che però per stessa ammissione dei gestori non fa alcun controllo sull’accuratezza dei dati trasmessi dagli organizzatori, come si può peraltro intuire da questa classifica di un torneo disputato a Brno nel 2011.

C’è da aggiungere che questi dati non tengono nemmeno conto dei giocatori che si scambiano quote o vengono stakati e quindi in caso di risultato positivo devono dividere gli utili.

Nell’ottobre del 2014 la corte di giustizia europea si è espressa duramente sull’operazione, con la sentenza sul caso Blanco-Fabretti, dichiarando che l’assoggettamento a imposizione delle vincite realizzate dai giocatori italiani nei casinò europei costituisce infrazione del diritto comunitario. La sentenza europea dovrebbe aver posto la parola fine, sul lato comunitario, a un’operazione che per due anni ha tolto il sonno a moltissimi pro italiani mettendoli di fronte ad accertamenti fiscali pesantissimi. Rimane invece aperto il fronte delle vincite fuori dell’Ue.

Gianpaolo nel pomeriggio viene eliminato dal torneo e torna in camera a riposare in vista della nottata di cash game. Anche le scommesse calcistiche non stanno girando granché bene e il viaggio in Montenegro sembra essere sottoposto, almeno per lui, a una varianza che l’ha portato in un territorio negativo. Materazz continua invece a navigare nelle parti alte della classifica.

Verso sera sto sorseggiando un coktail in terrazza, leggendo le avventure di Darko Saric, il montenegrino boss dei boss dei Balcani, quando scoppia una piccola crisi perché l’albergo è in overbooking, avendo promesso le stesse stanze sia a un gruppo di medici del sud Italia sia ai pokeristi del torneo.

Nella hall appare immediatamente Mike con i suoi pantaloncini mimetici e trova a me e a un’altra decina di persone una sistemazione per la notte in un residence dall’altra parte della strada, poi torna a sorvegliare le fasi finali del torneo sparendo in quella che per un istante mi sembra una nuvola di zolfo, ma potrei sbagliarmi.

L’ultimo ricordo che ho del Montenegro sono i tavoli del cash game verso le due di notte. C’è quello dei tagliagole, dove nessuno si arrischia a sedere, guardando il quale Gianpaolo mi chiede: “Quanto scommetteresti che a quel tavolo non c’è nemmeno una persona che non ha ucciso un uomo?”, e sono costretto ad ammettere che per metterci sopra dei soldi dovrei aggiungere alla descrizione della vittima almeno qualche variabile come “biondo, con studi in Portogallo, Erasmus in Ossezia, in possesso di una collezione di aquiloni giallo canarino, pronuncia le t in modo strano e ha tre capezzoli”. Così, forse, una decina di euro li scommetterei pure, mettendo in conto il rischio di perderli.

Più in là c’è un uomo dell’organizzazione che si aggira proponendo nuovi tavoli, ha sui sessant’anni e sembra egiziano, chiama il nome della specialità e i bui “Texas hold’em 10-20” in un inglese mediorientale il cui tono è familiare, somiglia a uno dei tanti venditori di sedie, padelle, cestini di vimini, nei mercati delle città che si affacciano sul Mediterraneo.

I giocatori sentono il richiamo e, se interessati, prendono un po’ alla volta posto al tavolo: ne servono almeno quattro o cinque per cominciare la partita. Se non arrivano, si aspetta e il banditore continua a decantare la sua mercanzia ai quattro venti. In crisi ipoglicemica da metà nottata prendo al bar un’impossibile fetta di torta Schwarzwald probabilmente in attesa di un turista tedesco dal 1986 e incasso il sorriso divertito della cassiera.

Il gioco al tavolo 10-20 stenta a decollare, le urla dell’egiziano risuonano ipnotiche fra le chiacchiere ai tavoli di ex contrabbandieri brindisini, impiegati milanesi, tedeschi, libanesi, studenti della Bocconi fuori corso, montenegrini e, sullo sfondo, vecchie che schiacciano bottoni rossi, gialli e arancioni ininterrottamente dalle dieci di questa mattina. Giungo alla conclusione, evidente quanto inesorabile, che, se non giochi, un casinò è uno dei posti peggiori sulla terra e me ne vado a letto.

Ah, se ve lo steste chiedendo, alla fine Materazz è arrivato settimo.

Un torneo nella slot house Blue King di Roma, maggio 2008. (Marta Sarlo, Contrasto)

Filosofia del poker

Dopo essere tornato in Italia ho continuato a documentarmi, a parlare con giocatori ed esperti di settore, a riguardare taccuini pieni di appunti, appunti millimetrici: “Al ristorante Porto sul lungo mare di Budva: numero cernie nella piscinetta 1, numero triglie 7. La cernia ha una proverbiale faccia da cernia”.

Eppure per un po’ non sono riuscito a scrivere questa storia. Ero sicuro che mi stesse sfuggendo qualcosa di molto, molto, importante. Ho riascoltato le registrazioni delle interviste, visto che quel diavolo cubico di Mike Pelteki era riuscito con il suo gruppo a organizzare degli eventi assieme al Wpt.

Mi ero avvicinato al poker come quasi tutti attratto dagli elementi mitologici: soldi facili, libertà, intelligenza, adrenalina e mi ero ritrovato invece in un mondo un po’ troppo simile al mio. Questi fattori contavano, sì, ma soprattutto contavano le percentuali, i rischi, i numeri implacabili che coprono ogni aspetto della professione e dell’esistenza; vite vissute al limite in nome del principio di autodeterminazione che si risolvono in una quantità forse poi non così conveniente di lavoro. Il legame tra numero e libertà mi sembrava istintivamente dubbio, scivoloso, infingardo (scusate, erano anni che sognavo di usare infingardo in una frase di senso compiuto).

Il fascino principale che offre il poker è la capacità di fottere il sistema, espressione che, nonostante tutte le accezioni da occupazione liceale che può avere, descrive con efficacia quello di cui stiamo parlando. È poco meno di un tabù, ma è fatto noto a tutti gli esseri dotati di autocoscienza che sono molto poche le persone a cui piace davvero alzarsi alle sette di mattina per trascinarsi a prendere ordini dentro un ufficio.

Il circuito del poker professionistico riunisce un ampio numero di persone che avrebbero potuto ambire, o avevano effettivamente, a posti ben retribuiti nel mondo “regolare”, ma che a un certo punto ne hanno percepito l’insensatezza e hanno preferito cimentarsi con un gioco che fondamentalmente è una sorta di sfida al controllo mentale con l’ausilio di supporti plastificati.

Un gioco che è in grado di fornire libertà, non la libertà assoluta, questa sì aspirazione sostenibile solo in un contesto liceale, ma un tipo di libertà anarcoide in cui è il soggetto a trattare autonomamente le condizioni della sua resa con tre interlocutori: i numeri, le carte e l’industria del gioco.

Non è come svolazzare nell’empireo in attesa che la dea della fortuna svuoti su di voi una cornucopia di soffice e gloriosa nullafacenza, ma comunque è molto più di quello che è concesso alla maggior parte delle persone.

I giocatori di poker non hanno stima per il banco e in generale si attaccano molto alle regole del gioco perché sanno che sono l’unica garanzia a loro disposizione in un ambiente ostile. Il caso di Phil Ivey, considerato da alcuni il giocatore di poker più forte del mondo, che dopo aver sbancato due casinò giocando a baccarat ha dovuto affrontare lunghi processi per avere usato a suo favore le condizioni che gli stessi casinò gli avevano concesso per iscritto con la speranza di prendere i suoi soldi, è una di quelle storie che fanno incazzare parecchio i pokeristi, che si vedono solitamente come gli unici uomini liberi nell’ambiente dei casinò. E non senza qualche ragione.

C’è infatti un certo raccoglimento e un elevato grado di onestà nel cuore della disciplina perché il poker con le sue regole e la sua circostanziata accettazione dell’alea è un ambiente molto più pulito e trasparente di tanti altri. Le variabili sono complesse, ma le incognite dichiarate, l’ambito della sfida delimitato, e c’è davvero la possibilità di vincere – cosa che non si può sempre dire del mondo in cui ci muoviamo tutti i giorni.

Peculiarità d’origine geografica tipica

Il poker professionistico fa parte di quella società del rischio che in un paese tendente alla tradizione e all’immobilismo come l’Italia non è mai vista bene e deve superare una certa dose di ostacoli aggiuntivi per il solo fatto di promuovere novità, e, nei momenti di difficoltà, deve tenersi pronta a subire più svantaggi di altri settori.

Ciononostante soprattutto nel primo periodo della sua storia, il poker online ha offerto grandi opportunità a molte persone, quasi tutte giovanissime, sulla base il più delle volte della loro intelligenza e abilità, non solo al tavolo ma anche nell’indotto, una situazione fluida e piena di potenziale. Non una cosa che capiti spesso dalle nostre parti.

Il poker però è anche un gioco spietato. La caccia al fish da questo punto di vista è inesorabile. Basta farsi un giro sui forum specializzati per vedere che questo è l’argomento principale su cui tutti si scervellano.

L’ultimo ritrovato allo scopo è un nuovo tipo di tornei online, i cosiddetti spin & go che per pochi soldi di buy in offrono minitornei con un montepremi soggetto all’alea, che può quindi essere di pochi euro come seimila volte l’ingresso.

Per i pro abituati a calcolare le probabilità è un tipo di gioco svantaggioso visto che il moltiplicatore seimila (ovvero una posta in gioco seimila volte più alta del buy in) capita una volta ogni 200mila tornei, e non ci vuole molto per capire che con la nuova specialità a vincere davvero è il banco che migliora la sua redditività.

Al tempo stesso però questo è un tipo di torneo gradito dai fish perché per pochi euro possono rischiare di trovarsi a giocare per quelle cifre importanti che sono sempre le migliori esche per il pesce fresco, notoriamente alla ricerca del colpo grosso.

Prendersi i propri rischi

Al poker per sopravvivere servono i fish, ma al tempo stesso è sempre vero che nessuno nel gioco è destinato a rimanere pollo per sempre se non lo desidera, può sempre provare a migliorare o smettere di giocare. Il dibattito etico andrebbe posto piuttosto nei termini di un dibattito di merito e volontarietà tra persone adulte.

Chi si siede al tavolo sa che potrà vincere i soldi degli altri e per questo accetta di poter perdere i suoi. Per vincere bisogna essere più bravi e fortunati degli altri, e ancora: pesato in un ambiente sterile il ruolo della fortuna nel poker sembra essere minore rispetto a quello che svolge nella vita fuori del tavolo. Basti pensare che il più forte dei player possiede una piccolissima frazione del patrimonio di una whale ereditiera, ma può impartirle una seria lezione in quella simulazione semplificata della vita che è il gioco del poker, fuori del tavolo verde la cosa si farebbe decisamente più complicata.

I numeri anarchici non durano a lungo

C’è di più. Confrontando le tante storie affascinanti contenute in The biggest game in town, il bel reportage di Al Alvarez sugli anni del poker prima dell’online e quelle del dopo Moneymaker, ciò che si nota è un grande cambiamento dell’approccio. Frasi del tipo “Come altri dei migliori pokeristi, Jack Straus valuta i suoi avversari non in base alle loro abilità matematiche, ma per quello che nell’ambiente pokeristico si chiama cuore”, oggi farebbero sorridere un professionista. Certo ai tavoli dal vivo contano ancora molto il mestiere, l’esperienza, la capacità di leggere le persone, ma lo studio dei numeri legati al gioco ha fatto passi da gigante ed è diventato imprescindibile.

I giocatori nati sull’online, che scappavano spesso da ambienti di lavoro dove il calcolo avanzato era l’utensile di base, hanno portato con sé questa capacità e l’hanno utilizzata per costruirsi una via alla libertà. Hanno usato il numero per emanciparsi dalla burocrazia aziendale, e questo non poteva non avere conseguenze sul lungo periodo.

La specialità è mutata in fretta: spinti dalla competizione i giocatori sono diventati troppo forti e il panorama è cambiato completamente. L’andamento è stato quello tipico dei fenomeni legati a internet, che con la sua universalizzazione dell’accesso distrugge le classi medie e polarizza la società in poche eccellenze che prendono tutta la posta e una coda lunga di dilettanti che prima o poi si stufano di perdere. Che la democrazia totale fosse strettamente legata alla tirannia era una cosa che sapevano già benissimo gli antichi greci e internet oggi restituisce le stesse dinamiche piramidali con picchi di distribuzione alti e sottilissimi, ma in maniera più astuta gli dà il nome di “opportunità”.

Nel nuovo scenario mutato, lo spettacolo dell’industria del poker si è fatto sempre più aggressivo: bisogna inserire persone nel sistema perché continui a essere profittevole, e la necessità diventa suonare la grancassa. In realtà però i guadagni milionari che si possono leggere sui database online sono dati che presi da soli non sono in grado di dire molto.

Qualche milione di euro di vinto, come dato isolato, non ci dice quanti soldi sono stati spesi per raggiungere quel risultato, né tra quante persone sia stata ripartita quella cifra. Per questi motivi i guadagni mitologici del poker sono normalmente sovrastimati. Ciò non significa che i migliori professionisti non guadagnino, e molto, ma che, per capire le reali dimensioni del business, bisogna grattare sotto la facciata, svitare qualche lampadina dalle abbaglianti insegne luminose dei casinò e vedere cosa c’è davvero scritto nei bilanci, non tanto degli operatori quanto dei giocatori.

Daniel Colman, dopo aver vinto 15 milioni (dei quali gli era per altro rimasta una quota del 10 per cento) al Big one for big drop, ha messo su la faccia cupa di quello a cui hanno appena rubato lo scooter e ha detto ai media che il poker “è un gioco oscuro”.

Molti l’hanno attaccato – “ma come vinci 15 milioni di dollari, devi essere l’uomo più felice della terra, devi essere l’esempio, colui che gli altri vogliono diventare”. Era però proprio questo che Colman non voleva essere: quel qualcuno che migliaia e migliaia di persone vorrebbero essere. Eppure quello era il suo ruolo nell’industria perché i sogni sono necessari all’economia del gioco. I top player guadagnano dalla fabbrica di speranze probabilmente tanto quanto dai tavoli, se non di più, considerate sempre le spese e la divisione delle quote.

La corsa alla libertà si è trasformata in celebrazione della libertà e buona parte della capacità di raggiungerla si è basata sulla capacità di dire che la si è già raggiunta, in quello che conosciamo meglio come il “paradosso del gangsta rapper” che fa i soldi dicendo nelle canzoni di averli fatti.

Quello che è successo, da un’altra prospettiva, è che i numeri hanno raggiunto ogni angolo del gioco e l’hanno ingabbiato riducendo gli spazi di manovra, regolarizzando e appiattendo le storie epiche del poker old school, finendo con il rendere il casinò più simile a un ufficio dove l’imperativo è seguire le regole. Con l’online sono nati i professionisti ragionati del poker, ma con l’ispessimento del field sono arrivati i rateback player, figura con cui i pro in fuga per la libertà sono stati quasi riassorbiti dall’incessante macchina aziendale. D’altronde erano stati i giocatori a portare i numeri nella casa dell’azzardo e ora i numeri hanno preso il controllo. Ironico proprio perché già contenuto nelle premesse.

Eppure c’era qualcosa di più nel poker oltre alla parabola della libertà che lotta per non rientrare nei ranghi, qualcosa di più profondo ed essenziale e sfuggente.

Storie vs probabilità

La folla ama il romanzo, anche a proprie spese.
E. M. Cioran

Che cosa mi stesse sfuggendo l’ho capito solo dopo qualche mese, mentre questo reportage se ne stava ancora sospeso in un limbo in cerca di un perché, e io stavo per addentare un panino al pastrami alto 25 centimetri in una tavola calda di Pittsburgh assieme a Jonathan Gottschall, uno scrittore che da anni studia l’istinto umano per la narrazione.

Parlando del suo lavoro è saltato fuori uno studio scientifico che mi sono ricordato di aver già trovato in un altro contesto. Si tratta di un esperimento: si mostrano delle sequenze casuali di colori verde e rosso a persone con il cosiddetto split-brain, una divisione postchirurgica degli emisferi cerebrali, poi gli chiedono di provare a indovinare una sequenza successiva sulla base delle precedenti. Separando i risultati per emisfero si è visto che quello destro sceglie sempre il colore che è uscito più spesso, mentre quello sinistro cerca di trovare una logica nella sequenza e quando questa non c’è, finisce per avere una efficacia più bassa dell’emisfero sinistro. (Wolford, Miller, Gazzaniga, Journal of Neuroscience, 2000).

Un giocatore durante un torneo di poker nella slot house Blue King di Roma, maggio 2008. (Marta Sarlo, Contrasto)

L’emisfero sinistro cerca cioè di individuare dei “pattern narrativi” nella realtà, e dove non li trova, con una certa nonchalance se li inventa, mentre quello destro si limita a constatare istintivamente le probabilità, senza sapere nemmeno bene cosa sta facendo. Questo succede perché l’emisfero sinistro è responsabile non solo delle storie ma in un senso più ampio anche delle astrazioni dei concetti, della creatività, dei nessi, mentre quello destro identifica il dettaglio, il particolare ma non è in grado di tematizzarlo. L’emisfero destro vede il refuso, quello sinistro non lo nota neppure perché è immerso nel significato concettuale della frase, e ognuno di noi ha un emisfero che ha la meglio sull’altro (capito, cari corrttori di bozze? Ok, a seconda di come avete letto la frase fra parentesi ora sapete da che parte state).

La cosa interessante è che Gottschall nel suo libro parla di questo esperimento per magnificare l’emisfero sinistro del cervello e le sue fantastiche virtù di storyteller, mentre fisici come Leonard Mlodinow e pensatori scettici come Nassim Nicholas Taleb citano il medesimo studio per parlare delle fallacie narrative, i molteplici casi, cioè, in cui la nostra mente capitanata dall’azione dell’emisfero sinistro ci fa compiere errori clamorosi. Il mondo delle fallacie narrative è quello dove si continuano a dare per certi dei rapporti causali che in realtà sono solamente molto probabili, un errore che nella vita si rivela il più delle volte tollerabile ma che un pokerista, così come un analista serio, non possono permettersi.

La narrazione è l’elemento con cui si sostanza il comizio, la teoria dei giochi quella che nel migliore dei casi domina le grandi decisioni geopolitiche internazionali. Nelle stanze segrete una narrazione può entrare solo come forza in grado di farsi fattore attivo in un determinato scenario e immediatamente gli viene assegnata una probabilità. Dopo mesi passati tra i pokeristi questo mi sembra istintivamente un comportamento da adulti, ovviamente però sbaglio: la stragrande maggioranza della popolazione adulta mondiale ragiona per storie, non per calcolo delle probabilità in un sistema complesso.

È più forte di noi, è la nostra natura.

La questione delle fallacie narrative è connaturata alla nostra biologia, deve essere stato un fattore evolutivo fondamentale per passarsi conoscenze, rinsaldare le strutture sociali, e, se dovessi scommettere, direi che la sua capacità di prescindere occasionalmente dai dati del reale deve avere molto a che fare con il tema della morte. In altri termini dio è la storia delle storie, falsa, ma decisamente utile, un handicap che paghiamo alla nostra autocoscienza.

La famosa frase di Truman Capote citata in una recensione su cinque, specie se si tratta di un memoir, “La differenza fra realtà e finzione è che la finzione deve essere coerente”, coglie esattamente questo punto: dalle storie ci aspettiamo quella coerenza che con i nostri sforzi quotidiani cerchiamo di mettere in un mondo che di per sé ne sarebbe privo. La teoria dei giochi ci dice che la coerenza come la intendiamo noi è più che altro una probabilità del reale, non la sua essenza.

Provando ad andare per un istante ancora più a fondo, la fisica quantistica ci dice che alla base stessa della materia c’è il concetto di probabilità e d’interazione: non solo non possiamo sapere con certezza dove stanno gli elettroni di un atomo e dobbiamo assegnarli una probabilità, ma per poterlo fare dobbiamo farli interagire con qualcosa.

Probabilità e interazione, come nel poker.

Uno dei problemi dell’età in cui stiamo vivendo è l’onnipervasività dei mezzi di comunicazione, del rumore informativo che ci raggiunge ovunque. In un contesto simile l’errore alla base delle fallacie narrative si moltiplica esponenzialmente, proprio mentre le variabili presenti nel mondo aumentano altrettanto rapidamente per via delle interdipendenze crescenti della società globale. Cioè, l’errore attraverso cui guardiamo il mondo, paradossalmente, aumenta quanto più proviamo a raccontare storie precise e coerenti. Potrebbe suonare un tantinello pessimista ma questa mancanza di lucidità rischia di diventare un pericolo per la specie, come dimostra, per esempio, l’immobilismo internazionale sulla questione del riscaldamento globale.

Ora, riportando tutto questo alla questione del gioco, l’emisfero sinistro è un giovane russo squattrinato che si aggira per Roulettenbourg, raccontando e raccontandosi storie, l’emisfero destro è un giocatore di poker che sta per vincere il main event del Wsop di Las Vegas ma non sa bene come sentirsi a riguardo. In realtà anche questa è un’estremizzazione: un buon pokerista deve essere in grado di usare entrambi gli emisferi, però non deve farsi sopraffare dall’istinto narrativo, evitare di scorgere nessi dove non ce ne sono e mantenere una visione aperta alle probabilità mentre cerca di tessere un sottile e flessibile filo conduttore della sua azione. Se il filo si spezza il giocatore va nel famoso tilt, ha perso cioè la sua mappa avanzata che utilizzava per orientarsi con efficienza nel mondo dell’incertezza.

Il pokerista non è il primo essere umano che, per professione, deve contrastare un istinto che si rivela inadatto alla complessità acquisita dall’esistenza umana nel procedere della storia. Se gli aeroplani non avessero i giroscopi avremmo buone probabilità di non sopravvivere ai voli notturni o a quelli che incontrano nubi in grado di far sparire la linea dell’orizzonte dalla vista dei piloti. L’essere umano non è fatto per volare e in mancanza di punti di riferimento, come succede nelle notti senza luna o nelle tempeste, il pilota perde in fretta la percezione della direzione e non riesce più a gestire le virate. L’esito più probabile è lo stallo e di lì a poco il disastro. Per evitare tutto questo sono stati inventati degli strumenti, i giroscopi appunto, che forniscono una linea d’orizzonte artificiale. Allo stesso modo il pokerista deve talvolta fidarsi dei numeri e non dei nessi narrativi che gli sembrano certi e inevitabili ma non lo sono affatto.

La storia dell’essere umano si può brutalmente semplificare nella storia di un animale che cerca di porre senso e certezze laddove non ce ne sono, perché è necessario al suo bene e perché è attraverso l’atto di creazione di senso che si esplicita la sua libertà nel mondo. Essere liberi in questo senso significa anche poter sbagliare.

Al tempo stesso l’essere umano è anche un animale che sente il potente e contrario richiamo del caso che sta alla base stessa della materia del mondo, il richiamo dell’alea.

Gli antichi greci usavano gli astragali, una specie di dadi fatti con ossa del tarso degli ungulati, e via via l’azzardo ha attraversato tutta la storia dell’umanità, come un ospite tollerato in quel luogo dove spesso si annidano molte delle verità esistenziali, l’angolo poco serio del gioco.

Il Texas hold’em arriva alla fine di questa storia e può essere disciplina “assai nobile” come mi ha detto uno dei protagonisti, proprio perché si pone per sua natura all’incrocio di queste forze primordiali, il caso e l’istinto umano alla narrazione coerente. Se fosse solo questione di numeri non sarebbe una disciplina per uomini ma un affare per macchine o impiegati.

C’è un senso di pulizia, di eleganza, di leggerezza nel modo con cui il giocatore di poker convive con il concetto di probabilità, lasciando larghe parti della vita indefinite, perché ne riconosce l’irriducibile oscurità, senza per questo rinunciare a prendere su di sé l’onere della scelta.

È quello il momento in cui tutto sembra ancora possibile, compreso il fatto di essere umani, a patto di accettare il rischio dell’irreversibile e spietata sconfitta.

Daniele Rielli (Quit the Doner) è giornalista e scrittore. Il suo primo romanzo Lascia stare la gallina è in libreria per Bompiani. Nel 2014 ha pubblicato Quitaly, raccolta di reportage per Indiana Editore.

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