Non ho capito bene cosa sia successo, forse ero distratta anch’io come tutti: mia figlia mi disse un giorno che non si sarebbe mascherata per carnevale, tanto non lo faceva nessuno, e io rimasi di pietra. Pensai che forse qualcosa di importante si era perso in una società distratta quanto me. Da piccoli per tutto l’anno pensavamo alla maschera di carnevale: una geniale e fantasiosa parente ci telefonava dieci mesi prima e ci chiedeva da cosa volevamo mascherarci. L’attesa del carnevale aveva un significato così profondo che è difficile concepire un’indifferenza. Poter essere l’altro: questo era il carnevale. Pirata, spazzacamino, pagliaccio, angelo, odalisca, spaventapasseri. La mia maschera preferita fu quella da “giorno e notte”: davanti aveva un paesaggio diurno con le case e i campi, dietro un paesaggio notturno alla luce della luna, dominato da un barbagianni. Crescendo ho scoperto la letteratura antropologica sul carnevale e carnevali antichi come quello di Montemarano o di Mamoiada. Ma anche nel mio modesto paese di provincia, le maschere non erano solo giochi d’infanzia. Ci sono servite per uscire da noi, per vedere il limite di noi stessi. L’altro poteva essere uno dei vivi o uno dei morti, reale o inventato. Il carnevale poi finiva e si tornava al costume di tutti i giorni, ma con un’esitazione maliziosa, con un segreto nello sguardo.

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Questo articolo è uscito sul numero 1548 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati