Le mie preferenze nell’ambito della letteratura statunitense si sono concentrate su autori e autrici che si sono fortemente compromessi con altre discipline senza diventare dei critici o creare una “narrativa da galleria d’arte”. Firme come Don DeLillo, Chris Kraus, Rachel Kushner. Anche se non c’entra con il disco di cui sto per parlare, è un modo per introdurre l’idea che le figure compromesse, corrotte o con un talento specifico per la ramificazione riescono a produrre opere particolari. Opere per cui non basta dire che sono riuscite o no, perché l’esperienza sta negli ostacoli, nei riverberi, in tutta la materia che assorbono mentre inventano i propri strati. Jonathan Clancy è una figura di questo tipo.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Reduce da diverse vite da solista o con una band (Settlefish, A Classic Education, His Clancyness) e dopo aver prodotto alcuni degli album sperimentali più caratterizzati della scena italiana recente (ma che non fanno “musica da galleria d’arte”) con la Maple Death Records, il 2 febbraio torna con l’album solista Sprecato. Il titolo è mutuato dall’immaginario del disegnatore Michelangelo Setola con cui Clancy collabora da tempo e condivide materiali orientati a una cupezza psichedelica ma sfrangiata, proprio come la voce di Clancy è acuta ma smagliata. I singoli che precedono l’uscita sono dei binomi, Had it all/Precipice e I want you/A worship deal, presentati per contrasti, ma proprio A worship deal è un buon punto d’ingresso: è un po’ come se Arthur Russell e Nick Cave stessero facendo una passeggiata in un vicolo di rifiuti che pian piano diventa lo spazio. ◆

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1547 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati