Sanremo si è chiuso in maniera crepuscolare, malgrado i ritmi da balera discotecara. Anzi, si è chiuso in maniera proprio brutta, con la paura interiorizzata o il divieto implicito di pronunciare le parole Gaza e genocidio in tv, fatte le dovute eccezioni. Ma anche per via di un apparente scontro tra nord e sud incentrato sulla vittoria di Geolier durante la serata delle cover e il consenso che gli ha portato a ottenere il 60 per cento al televoto, dato unico nella storia di Sanremo. Chi ha “drammatizzato” le vittorie parziali di Geolier, arrivato comunque secondo, l’ha fatto mettendo in scena una presunta “vendetta dei cafoni” totalmente sfocata rispetto al momento storico, caricandola di accuse facilotte di associazione criminale: non si può far passare per riscossa del margine l’affermazione di un genere musicale maggioritario come il rap ibridato di Geolier, che dilaga ovunque.

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A maggior ragione se radicato in un territorio che ha fabbricato immaginari a uso e consumo della nazione a partire dagli anni in cui la serie Gomorra è diventata un brand multinazionale, livellando accenti e aspettative su cos’è Napoli e cosa può essere. Non ha senso mescolare Geolier, Mare fuori, Elena Ferrante, Paolo Sorrentino o i Thru Collected nello stesso calderone. Parlano lingue diverse, producono effetti sociali e artistici diversi in base al desiderio dello spettatore. E si corre il rischio di plastificarli nello stesso presepe. Però fa sorridere che un artista come Geolier venga accusato di far parte di quelli che “Mo’ ce ripigliamm’ tutt’ chello che è ’o nuost’”: è già loro, e da tanto tempo. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1550 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati