Si ha sempre un sussulto, di questi tempi, quando, lungo la catena delle solite pessime notizie si sente alla radio o in televisione che è scomparsa qualche persona di rilievo. Scomparsa? Com’è potuto accadere? Stiamo tornando ai sequestri di persona? L’equivoco, meno male, dura qualche secondo, poi si capisce che la sparizione si è verificata dopo lunga o breve o brevissima malattia e quasi si tira un sospiro di sollievo: la persona di rilievo è solo morta. Ma si sa, va così, i verbi che alludono alla morte sono carichi di energia metaforica. “Scomparire” si usa molto, e non è cosa da poco, sembra una magia. Piace anche “andarsene” e non parliamo di “venire a mancare”. Si tratta, a pensarci, di azioni che richiedono una notevole vitalità. Il defunto se la batte, si sottrae, fa prodezze, cosa piuttosto in contrasto con le sue reali condizioni. Forse tutto si chiarisce con “volare in cielo”, azione che presuppone robusta costituzione e abilità. E ancor meglio fa “rendere l’anima a dio”, dove la morte diventa una puntuale restituzione. Tutto questo attivismo dipende probabilmente dalla credenza nell’anima immortale. Anche se va detto che, perfino nelle formule più grezze – crepare, schiattare – il rigor mortis tendiamo a ignorarlo. Forse, se proprio non sappiamo fare a meno delle metafore, è preferibile il tenue “si è spento”. C’era un bel fuocherello, poi, pazienza, s’è consumato.

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Questo articolo è uscito sul numero 1521 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati