Cantonate. Ne ho presa una quando ho letto, anni fa, un capolavoro di piccole dimensioni, men o di cento pagine. Il titolo è Casa d’altri (1953), l’autore è Silvio D’Arzo. Leggetelo, se non l’avete già fatto. Qui posso solo dire che c’è un prete, una vecchia lavandaia di nome Zelinda e per sfondo una vita poverissima di montagna raccontata in modo prodigioso. Zelinda ha un quesito che fatica a porre al prete. Vuole sapere se la chiesa potrebbe passar sopra alla violazione di una delle sue regole. Quale? Quando la vecchia riesce a dirlo, il prete scopre con dolore di avere in mente solo “cose d’altri”: parole non sue cioè, vecchie formule memorizzate che non servono a dare una risposta vera alla domanda vera della lavandaia. Be’, quel “cose d’altri” – il prontuario messo a punto da una qualche autorità per permet terci di dare risposte standard ed evitarci la ricerca pericolosa di parole nuove – non m’è uscito più dalla testa e sono arrivato a pensare: settant’anni fa devono aver letto male la grafia di D’Arzo, hanno scambiato “cose” per “casa” , il titolo era Cose d’altri non Casa d’altri . Questo sospetto, ricorrente negli anni, se n’è andato solo qualche giorno fa. Ho letto la prefazione di Laura Cerutti all’edizione Feltrinelli, la post­fazione di Valeria Parrella, e mi sono detto con dispiacere: studia invece di fantasticare, che bel titolo è Casa d’altri .

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Questo articolo è uscito sul numero 1525 di Internazionale, a pagina 12. Compra questo numero | Abbonati