L’imperativo oggi più diffuso è: non essere ideologico. Le ideologie sono una fodera a copertura dei fatti grezzi: la fodera delle religioni, delle filosofie, delle teorie politiche, di qualsiasi scienza più o meno azzardata. Basterebbe sfoderare i fatti e quelli verrebbero fuori nudi e crudi, pronti per essere affrontati. Ma affrontati da chi, secondo quale modo di guardarli? Quello buono, è ovvio, quello oggettivo, quello scientifico, cioè il nostro. Cosa che naturalmente insospettisce tutti gli altri: perché il vostro modo non è ideologico e invece il nostro sì? A questo punto, per amore del quieto vivere, è necessario ammettere che anche se i fatti sono lì, in bella ineccepibile evidenza, il problema è che è impossibile non avvolgerci intorno un modo di raccontarceli, sarebbe troppo angoscioso. Di qui forse il trionfo odierno della parola narrazione, che pare meno complicata di ideologia, più accattivante, più accessibile a tutti: non sono ideologico, semplicemente ti racconto come stanno i fatti. Ma c’è narratore e narratore: una cosa è il racconto di Pinco Pallino, altro è il racconto di Marcel Proust. E Proust naturalmente siamo noi, e se gli altri non riconoscono questa verità, be’, è la rissa, gli odi, le guerre, i massacri, non per ideologia – sia chiaro – ma solo per chiarire che la nostra narrazione è del tutto aderente alla realtà dei fatti.

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Questo articolo è uscito sul numero 1534 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati