Tre ore e mezzo. Da Jenin a Tulkarem. In tre ore e mezzo puoi prendere un volo da Tel Aviv fino a Roma, o andare in auto a Eilat. Ma nella Cisgiordania occupata di oggi questo è il tempo che abbiamo impiegato la settimana scorsa per percorrere quei 35 chilometri. Da quando il 7 ottobre 2023 è cominciata la guerra a Gaza, in Cis­giordania alla fine di ogni strada palestinese c’è un cancello di ferro chiuso.

L’app di navigazione stradale Waze ci suggeriva le stesse strade che abbiamo percorso noi, ma non sa che alla fine di ognuna c’è un cancello sbarrato o un blocco stradale. Vicino ai resti della stazione ferroviaria ottomana di Sebastia i soldati riservisti fermavano i palestinesi e gli impedivano di imboccare anche un remoto sentiero sterrato. Vicino all’insediamento di Shavei Shomron i militari permettevano di viaggiare da sud a nord, ma non nella direzione opposta. Al posto di blocco successivo, invece, i soldati si stavano facendo dei selfie, e tutte le auto dovevano aspettare che finissero di scattarsi le foto. Poi, in modo sprezzante e paternalistico, hanno fatto il gesto della mano che permetteva ai palestinesi di passare, mentre l’ingorgo alle loro spalle continuava ad aumentare.

Con il pretesto della guerra e con l’aiuto del governo, l’esercito israeliano ha modificato la sua condotta nei territori occupati: vuole una Gaza in Cisgiordania

Il blocco stradale vicino all’insediamento israeliano di Einav, che abbiamo attraversato al mattino, nel pomeriggio era stato chiuso al traffico. Impossibile sapere perché. Il posto di blocco della cittadina di Hawara era chiuso. L’uscita da Shufa era chiusa. Lo stesso valeva per la maggior parte delle strade che dai villaggi palestinesi portano alle arterie principali.

È così che abbiamo viaggiato la settimana scorsa, “come scarafaggi storditi dentro una bottiglia”, per dirla con le parole del generale Rafael Eitan che nel 1983 si vantava delle sue vittorie in Cisgiordania. Tre ore e mezza da Jenin a Tulkarem, per raggiungere l’autostrada 557 e tornare in Israele. Questa, del resto, è la vita dei palestinesi in Cisgiordania negli ultimi tempi. Come fa quel brano del cantautore israeliano Yehuda Poliker e dello scrittore Yaakov Gilad? “Potrebbe andare meglio / potrebbe essere un disastro / buonasera disperazione e buonanotte speranza / chi è il prossimo in fila e chi c’è nella fila accanto”.

Alla sera, migliaia di auto erano ormai ferme al bordo della strada. I guidatori se ne stavano lì, umiliati, impotenti e silenziosi. Avreste dovuto vedere la paura nei loro occhi quando riuscivano ad avvicinarsi al posto di blocco; qualunque mossa sbagliata poteva portarli alla morte. Avrebbe potuto farli esplodere di esasperazione.

Israele sta facendo di tutto per spingere la Cisgiordania verso un’altra intifada. Non sarà facile. La Cis­giordania non ha né la leadership né lo spirito combattivo della seconda intifada, ma come si fa a non perdere la testa? Circa 150mila persone che lavoravano in Israele sono disoccupate ormai da tre mesi. Si può perdere la testa anche per altre cose, come l’ipocrisia dell’esercito. I comandanti dicono ai riservisti israeliani che combattono a Gaza che le persone devono poter andare al lavoro, ma se scoppierà una rivolta palestinese saranno proprio le forze armate israeliane le principali responsabili.

Il problema non è solo economico. Con il pretesto della guerra e con l’aiuto del governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu, l’esercito israeliano ha modificato in modo pericoloso la sua condotta nei territori occupati: vuole una Gaza in Cisgiordania.

I coloni vogliono la stessa cosa, per poter cacciare quanti più palestinesi possibile. Secondo i dati delle Nazioni Unite, dal 7 ottobre in Cisgiordania sono stati uccisi 344 palestinesi, tra cui 88 bambini e adolescenti. Otto o nove di questi sono stati uccisi dai coloni. Nello stesso periodo cinque israeliani sono stati uccisi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, quattro dei quali dalle forze di sicurezza israeliane.

Questo perché negli ultimi mesi in Cisgiordania l’esercito israeliano ha cominciato a sparare dal cielo, proprio come a Gaza. Il 7 gennaio, per esempio, i soldati hanno ucciso sette giovani fermi in uno spartitraffico vicino a Jenin, dopo che uno di loro aveva presumibilmente lanciato una carica esplosiva contro una jeep, mancandola. È stato un massacro. Quei sette ragazzi facevano parte della stessa famiglia: quattro fratelli, altri due fratelli e un cugino. Ma Israele non si fa scrupoli.

Ora l’esercito di Tel Aviv sta trasferendo le sue forze da Gaza alla Cisgiordania. L’unità Duvdevan, che agisce sotto copertura, è già sul territorio, ed è in arrivo anche la brigata di fanteria Kfir. Torneranno in Cisgiordania esaltati dalle violenze indiscriminate commesse a Gaza e vorranno continuare il loro grandioso lavoro.

Israele vuole una nuova intifada. Forse alla fine riuscirà ad averne una. Quando questo succederà, non dovrà fingersi sorpreso. ◆ fdl

Questo articolo è uscito sul quotidiano israeliano Haaretz.

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Questo articolo è uscito sul numero 1547 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati