Tutto d’un tratto l’India si chiama il Bharat. “Che cos’è un nome”?, verrebbe da chiedersi citando William Shakespeare. In realtà il primo ministro Narendra Modi, l’uomo che ha scelto di adottare la denominazione sanscrita per il suo paese nella stessa settimana in cui riceveva con tutti i lussi e gli onori i partecipanti al vertice del G20 a New Delhi, sta cercando di proiettare un’immagine dell’India come vishvaguru (guru del mondo). È il momento di analizzare con attenzione le rivendicazioni di Modi e di osservare il presente e il futuro della sua “Nuova India” senza aggrapparsi a illusioni confortanti.

Partiamo dall’opuscolo “Bharat, la madre della democrazia”, presentato dal primo ministro ai leader del G20. Secondo il libretto, gli antichi saggi e re indù erano fautori dell’uguaglianza, dell’inclusività e dell’armonia. Perfino il femminismo moderno sarebbe stato anticipato da una statua in bronzo di cinquemila anni fa di una ragazza che danza, “indipendente e libera”. Queste affermazioni fanno parte di una complessa narrazione che oggi sta plasmando la mentalità di molti indiani, secondo cui la civiltà indù del passato sarebbe stata distrutta dai musulmani e dagli sfruttatori occidentali. Oggi in India questa rielaborazione della storia è usata per giustificare le umiliazioni inferte alle minoranze musulmane e cristiane, l’epurazione dei libri di testo e ora anche l’assegnazione ufficiosa di un nuovo nome al paese.

La popolarità del primo ministro Narendra Modi nasce da una promessa potente: distruggere il vecchio ordine politico e garantire “un’età dell’oro per i prossimi mille anni”

La popolarità di Modi, slegata dai destini altalenanti del suo partito, nasce da una promessa potente: distruggere il vecchio e corrotto ordine politico e garantire – come ha ribadito il 15 agosto nel discorso pronunciato in occasione della giornata dell’indipendenza – che una nuova India modernizzata vivrà “un’età dell’oro per i prossimi mille anni”.

Questa ampollosità millenarista, che si trova anche nei discorsi di Vladimir Putin e di Xi Jinping, si collega alla lunga tradizione di demagoghi anti-occidentali che si proclamavano eredi di antiche civiltà, compresi i tedeschi e gli italiani che cercarono di costituire rispettivamente “il reich dei mille anni” e la “terza Roma”. Presumere che i fascisti tedeschi e italiani si opponessero alla modernità per rifarsi a un passato idealizzato è un errore comune. Al contrario, desideravano tecnologie ultramoderne, sistemi di trasporto avanzati e opere pubbliche sbalorditive, spesso ricorrendo all’aiuto degli stessi paesi occidentali che definivano “decadenti”. I fascisti, proprio come i nazionalisti indù, usavano i mezzi di comunicazione, gli eventi sportivi e le scoperte scientifiche per proiettare l’immagine di un popolo unito che rinasce.

Dato che il potere tecnologico e militare è rimasto nelle mani di Stati Uniti, Francia e Regno Unito, i paesi che non riescono a tenere il passo dell’occidente hanno sempre provato a dichiararsi superiori nel campo della cultura. Invocando il loro grandioso passato mentre cercano d’intestarsi il futuro del mondo, sono diventati esempi di quello che lo storico statunitense Jeffrey Herf ha definito “modernismo reazionario”. Presentando gli antichi indiani come pionieri della democrazia e del femminismo, Modi s’inserisce in questa famiglia di modernisti reazionari: anche la sua India tenta di mescolare il neotradizionalismo con la modernizzazione, misurandosi in rapporto all’occidente. Non è un caso che Modi sia iscritto alla Rashtriya swayamsevak sangh (Rss), un’organizzazione che fin dagli anni venti imita la strategia di propaganda dei regimi autoritari. In più di nove anni di governo il suo partito, il Bjp, ha messo in chiaro che i nazionalisti indù vogliono rimodellare la società ripudiando l’islam e l’occidente.

Tutto questo non cambierà. Chi spera di reclutare il Bharat come alleato dell’occidente dovrebbe ricordarsi la riflessione fatta dallo scrittore Nirad Chaudhuri nel 1954: l’aspetto più inestirpabile del nazionalismo indù è “la xenofobia, sia personale sia ideologica”. Un sentimento, spiegava Chaudhuri, che può risultare dormiente “quando la forza militare e politica dello straniero” è schiacciante, ma che si alimenta delle “campagne diffamatorie”. Dunque non è strano se un ministro indiano deride i paesi occidentali su X (Twitter) perché il G20 non ha condannato l’aggressione russa in Ucraina. Le critiche feroci nei confronti dell’occidente ormai sono una routine in India. Il fatto sorprendente, come dimostra l’attacco contro George Soros fatto dal governo Modi e dai troll su internet, è che l’India stia partecipando, per la prima volta nella sua storia, al movimento antisemita globale.

Di sicuro nessuno dei due luoghi comuni sull’India – che sia una democrazia in crescita e che abbia una tendenza autoritaria – basteranno a descrivere i pericolosi anni futuri. Serviranno analisi più profonde sul piano storico, man mano che un altro gruppo di modernisti reazionari emergerà a oriente. ◆ as

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1529 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati