06 ottobre 2015 17:28

Un fine settimana di violenze in Cisgiordania e a Gerusalemme Est ha sollevato il timore che possa scoppiare una terza intifada palestinese. Una delle ultime vittime è un bambino di tredici anni ucciso dall’esercito israeliano nel corso di alcuni scontri all’esterno di un campo profughi a Betlemme. Abdel Rahman Shadi è stato colpito al petto dai militari israeliani ed è morto il 5 ottobre dopo essere stato sottoposto a un’operazione d’urgenza all’ospedale di Beit Jala. Shadi è il secondo ragazzo palestinese ucciso in ventiquattr’ore.


Diplomatici e analisti che si occupano della regione temono che l’intensificarsi della violenza possa trasformarsi in una nuova rivolta. Il 2 e il 3 ottobre quattro israeliani sono stati uccisi nel corso di alcuni attacchi organizzati da palestinesi. Il 4 ottobre la prima pagina di un popolare giornale israeliano titolava: “La terza intifada”, mentre altri opinionisti sono stati più prudenti. Alcuni si sono chiesti se gli ultimi fatti stiano seguendo lo schema delle due precedenti intifada, cominciate rispettivamente nel 1987 e nel 2000. Altri si chiedono come fermare la spirale di violenza prima che questa si trasformi in intifada.

Oltre a essere stata sollevata dai mezzi d’informazione israeliani, la questione sembra aver assunto un tono più realistico perché Muhanad Halabi, uno studente palestinese di 19 anni che ha ucciso due israeliani nella città vecchia, prima di quel fatto aveva pubblicato su Facebook un post in cui ha collegato il suo gesto a una “terza intifada”.

Rivolgendosi alla radio palestinese il 5 ottobre, Saeb Erekat, il principale rappresentante palestinese ai negoziati di pace, ha affermato che la situazione gli ricordava i primi giorni della seconda intifada. “Questi eventi somigliano a quelli del settembre del 2000. L’esperienza ci insegna che Israele non può limitare  con la forza la libertà dei palestinesi”, ha dichiarato.

La questione è stata sollevata da alcuni diplomatici, tra cui il ministro degli esteri tedesco, in occasione di una visita a Berlino del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. “Quello che ci aspetta è qualcosa di simile a una nuova intifada”, ha dichiarato il portavoce del ministro degli esteri, Martin Schäfer. “La cosa non può essere nell’interesse di nessuno, né di Israele né dei politici palestinesi”.

Una cosa è certa: quello attuale è un periodo inconsueto e pericoloso. Per due giorni la città vecchia di Gerusalemme è stata chiusa ai palestinesi non residenti, un fatto senza precedenti. In Cisgiordania, i coloni ebrei e i palestinesi hanno preso a sassate delle automobili.

In particolare la seconda intifada ha avuto un ampio sostegno da fazioni politiche rivali

Ma nessuno di questi elementi è una prova sufficiente del fatto che una nuova intifada sia cominciata o stia per cominciare. Parte del problema riguarda la sua definizione. Le intifada passate, in particolare la seconda, hanno coinvolto le forze di sicurezza palestinesi negli scontri e ottenuto un ampio sostegno da fazioni politiche rivali, cosa che in questi giorni non si è ancora verificata. Ma poiché furono molte le differenze anche tra la prima e la seconda intifada è ancora presto per usare i paragoni con il passato per prevedere cosa accadrà.

Quel che si può affermare, come ha sostenuto il sondaggista e analista politico Khalil Shikali dopo la pubblicazione dell’ultima indagine del suo istituto, il Palestinian centre for policy and survey research, è che il livello di insoddisfazione attuale all’interno della società palestinese sembra simile a quello che c’era al momento della seconda intifada.

Il sondaggio ha rilevato che il 42 per cento degli intervistati era convinto che solo una lotta armata avrebbe potuto portare alla nascita di uno stato palestinese, mentre i due terzi vorrebbero che Abu Mazen si dimettesse dalla carica di presidente.

Il sondaggio rileva inoltre che la maggioranza dei palestinesi non crede più che la soluzione dei due stati sia realistica, con il 57 per cento degli intervistati che sostiene il ritorno a un’intifada armata in assenza di negoziati, rispetto al 49 per cento di tre mesi fa.

“Se fosse innescata una scintilla, non c’è alcun dubbio che la situazione palestinese oggi è molto, molto propizia a una grande esplosione”, ha affermato Shikaki.

Ma quel che non è ancora chiaro è se la società palestinese, che nell’ultima intifada ha pagato un prezzo molto alto pur ottenendo apparentemente pochi vantaggi, sia unita nel volere un altro periodo di disordini.


Al contrario dell’ultima rivolta, scatenata da una visita dell’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon al sito religioso noto ai musulmani come Spianata delle moschee e agli ebrei come Monte del tempio, gli episodi recenti di violenza sono stati perlopiù sporadici e caratterizzati non da attacchi suicidi, ma da attentati di “cani sciolti”.

La violenza deve ancora raggiungere i livelli di quell’intifada, quando furono uccisi più di quaranta palestinesi e quasi duemila vennero feriti solo nei primi giorni. Ma c’è qualcosa di familiare nel modo in cui comincia a costruirsi una spirale fatta di violenza, funerali, scontri e vendette. Su Ha’aretz, l’opinionista Anshel Pfeffer ha scritto che è proprio questo elemento che lo preoccupa: la violenza non è più qualcosa di speciale, ma ha cominciato a fondersi in una sorta di condizione permanente.

“Quando le esplosioni di violenza si manifestano con rapidità e intensità, e in maniera così frequente che sono rari i momenti di calma, forse è giunto il momento di riconoscere che qualcosa è già cambiato e che forse la terza intifada è già in corso da un anno”.

Pfeffer ritiene inoltre che un altro motivo per cui una terza intifada potrebbe avere caratteristiche diverse è la recente crescita dell’estremismo ebraico che alimenta gli scontri. “Un’altra caratteristica della prossima (o attuale) intifada potrebbe sicuramente essere l’aumento delle azioni di ritorsione da parte degli estremisti, come l’incendio doloso che ha ucciso tre membri della famiglia Dawabsheh nel villaggio di Duma, in Cisgiordania, circa due mesi fa”.

Un’altra differenza cruciale rispetto al passato è che l’attuale ondata di disordini non è rimasta circoscritta alla Cisgiordania, ma si è estesa anche a Gerusalemme Est, dove covava già dalla scorsa estate.


Nella città di Tulkarem, nel nord della Cisgiordania, le persone che partecipavano al funerale del diciottenne Huthayfa Othman Suleiman, ucciso domenica sera dall’esercito israeliano durante uno scontro, si chiedevano se stesse arrivando una nuova intifada e, in caso affermativo, che cosa avrebbe significato.

Dopo che Suleiman è stato sepolto nel cimitero di Bala, il suo villaggio natale, quelli che hanno preso la parola hanno espresso la loro rabbia nei confronti delle forze di sicurezza palestinese che hanno contenuto la protesta popolare. Hanno anche parlato delle recenti tensioni alla moschea di Al Aqsa, nella Spianata delle moschee, che hanno avuto un ruolo chiave nell’intensificazione della violenza.

Tra le persone presenti al funerale c’era Hassan Qureishi, vicepresidente del Consiglio legislativo palestinese. “Al punto in cui ci troviamo ora, non credo si tratti di un’intifada. Una rivolta rabbiosa, questo sì”, ha dichiarato. “Quello che manca è una decisione politica che la sostenga, una copertura politica. Non tocca a noi agire, ma ad Abu Mazen. Sotto pressione, è possibile che Abu Mazen debba prendere una decisione simile”.

In tal caso, secondo Qureish, sarebbe necessario che Mazen mettesse fine alla cooperazione dell’Autorità palestinese con Israele in materia di sicurezza: a quel punto, secondo lui, comincerebbe davvero un’intifada.

Come altre persone, Qureishi parla di una divisione generazionale: i palestinesi poco più che ventenni o più giovani, che sono cresciuti dopo gli accordi di pace di Oslo, sembrano più convinti di non aver tratto alcun beneficio dal processo di pace, ormai moribondo.

Al cimitero il cinquantenne Ibrahim Hamdan appariva più pessimista. Proprietario di un negozio di elettrodomestici, ha dichiarato che durante la seconda intifada ha subìto grosse perdite finanziarie, ma che sarebbe disposto a pagare nuovamente quel prezzo.

“Non ci sarà alcun cambiamento nell’atteggiamento degli israeliani e le cose non faranno che peggiorare. Ci sono già dei segni che mostrano l’arrivo di una terza intifada. Che cosa vi aspettate? Non abbiamo niente da perdere. Non è pessimismo, è solo la realtà. Bisogna che succeda qualcosa di nuovo”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it