18 maggio 2016 11:19

Dopo vent’anni di preparazione e una spesa di altrettanti milioni di dollari, i dirigenti palestinesi inaugurano il 18 maggio il grande museo dedicato alla loro storia e alla loro cultura. L’architettura è impeccabile, ma le sale d’esposizione sono vuote.

Le autorità sbandierano da mesi, attraverso comunicati e conferenze stampa, l’apertura di questo museo che dovrebbe documentare quella memoria nazionale sottoposta, secondo i palestinesi, ai tentativi di sradicamento da parte d’Israele.

Solo che quando il presidente Abu Mazen inaugurerà il museo sulle colline della città universitaria di Bir Zeit, in Cisgiordania, nei saloni dell’ampio edificio – la cui forma ricorda vagamente una base spaziale o una farfalla di vetro e pietra bianca locale – non ci saranno né mostre né installazioni.

“Questo non è un museo vuoto”, obietta il suo direttore, Omar Qattan, bensì “un edificio destinato ad accogliere un museo”. È costato 28 milioni di dollari, “finanziati al 95 per cento dai palestinesi”, e attualmente dà lavoro a una quarantina di persone, precisa. “Il programma di mostre comincerà a ottobre. In questo momento celebriamo la fine dei lavori dell’edificio e dei giardini”, spiega Qattan. “Ci eravamo impegnati a seguire un calendario ed era più importante rispettarlo che attendere la mostra d’inaugurazione”.

Un destino nazionale comune

Negli ultimi mesi, in vista di questa mostra, vari ricercatori si erano messi al lavoro alla ricerca di album fotografici delle famiglie palestinesi sparse in tutto il mondo in modo da mettere insieme un corpus di ricordi. Ma l’apertura al pubblico, per il momento, è sospesa.

Nel corso degli ultimi sei mesi, “il direttore e vari responsabili del museo si sono dimessi”, spiega all’Afp una fonte che ha seguito da vicino il progetto e che ha deciso di rimanere anonima. “Sono emersi punti di vista diversi”, dice, senza approfondire.

Creare un luogo della memoria è un atto fondamentale per i palestinesi, che finora ne erano privi. Da decenni sotto occupazione israeliana e sottoposti al protrarsi della colonizzazione che continua a rosicchiare territorio allo stato indipendente al quale aspirano, i palestinesi difendono un destino nazionale comune.

La visita organizzata per i giornalisti, il 17 maggio 2016. (Abbas Momani, Afp)

L’idea del museo è nata nel 1997, quattro anni dopo la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese, nell’euforia successiva alla firma degli accordi di Oslo, gli stessi che avrebbero dovuto garantire la creazione, nel 1999, di uno stato palestinese e la fine del conflitto con Israele.

Un anno dopo, mentre i palestinesi commemoravano i cinquant’anni della “catastrofe” che ha rappresentato per loro la creazione d’Israele, nel 1948, la fondazione Taawon, un’associazione senza scopi di lucro, ha deciso di dedicarsi alla creazione del museo.

Oggi questo gioiello architettonico, incastonato in un giardino ricco di diverse piante, si estende su un terreno di quattro ettari. L’edificio è stato progettato da architetti irlandesi e cinesi che hanno voluto fonderlo nell’ambiente naturale e renderlo ecologicamente avanzato. Gli organizzatori assicurano che le imponenti pareti di vetro e le terrazze a scalini permetteranno di risparmiare acqua ed energia elettrica.

Il museo ha anche un sito, che consente di raggiungere i quasi due milioni di abitanti di Gaza sottoposti all’embargo e i palestinesi dei campi profughi dispersi nei paesi della regione, ai quali è impedito l’ingresso nei Territori occupati.

Delle succursali del museo potrebbero inoltre aprire in Libano e in Giordania, dove si trova la maggior parte dei campi profughi per palestinesi dell’Onu. La primissima mostra annunciata dal museo si terrà la settimana prossima a Beirut. Sarà dedicata al ricamo tradizionale e si trasferirà poi a Bir Zeit. A ottobre.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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