14 aprile 2017 13:40

Il 16 aprile gli elettori turchi saranno chiamati a pronunciarsi in un referendum sulla riforma costituzionale voluta dal capo dello stato Recep Tayyip Erdoğan. Una riforma che dovrebbe ufficializzare la creazione di un regime presidenziale sulle rive del Bosforo.

Il voto, che potrebbe permettere a Erdoğan di restare al potere fino al 2019, sembra agli occhi di molti un test importante per l’uomo forte del paese, soprattutto dopo il tentativo di colpo di stato fallito del 15 luglio, che ha provocato un’ondata depurazioni in tutti i settori del paese.

Anche se gli ultimi sondaggi sembrano mostrare un certa propensione per il “sì” (”evet”) e il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp, al potere dal 2002) si è impegnato a fondo nella campagna, il risultato del referendum rimane molto incerto, scrive il Financial Times.

A Istanbul i cittadini sono divisi: c’è chi si batte in favore della riforma, dichiarando che “in macchina ci può essere un solo autista”, e chi invece si oppone con ostinazione. Per questi ultimi il “no” (”hayir”) è l’unico mezzo per bloccare le aspirazioni autoritarie di Erdogan, che suscitano timori anche nella comunità turca all’estero.

Per gli oppositori del regime il fondatore dell’Akp – soprannominato da loro il “nuovo sultano” – cerca solo di consolidare ancora di più il potere dell’esecutivo mettendo il potere legislativo e giudiziario sotto il suo controllo.

Per Henri J. Barkey, specialista di Medio Oriente e opinionista del Washington Post, domenica sera la Turchia non sarà più la stessa, indipendentemente dal risultato. Le possibilità sono due: in caso di vittoria del “no” il paese rischia di conoscere un periodo di grave instabilità; in caso di vittoria del “sì” entrerà in una fase di populismo autoritario – con tutte le conseguenze economiche drammatiche che questo comporta.

Anche Patrick Cockburn, giornalista del quotidiano inglese The Independent, è molto preoccupato e pensa che il risultato del referendum potrebbe rappresentare la morte della democrazia nel paese. Una prospettiva di transizione verso una dittatura istituzionalizzata che, conclude la sua collega Fariba Nawa su Usa Today, è ancora più preoccupante, perché riguarda la Turchia ma di riflesso anche l’Europa, il Medio Oriente e le relazioni con gli Stati Uniti e la Nato (di cui Ankara è membro dal 1952).

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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