04 agosto 2021 10:06

Barbara Gomes ha quasi concluso il suo dottorato in biomedicina all’università federale di Rio de Janeiro (Ufrj), una delle migliori del Brasile. I posti di lavoro scarseggiano e il meglio che sia riuscita a trovare è un impiego da supplente all’università, pagato circa quattromila real (760 dollari) al mese. Per i suoi esperimenti su una proteina collegata alla malattia della mucca pazza, tuttavia, ha bisogno di reagenti che l’università non può sempre permettersi e che costano più del suo salario. Di conseguenza Gomes, come molti altri suoi colleghi, vuole andarsene dal Brasile. Il suo progetto di trasferirsi in Francia è stato mandato all’aria dalla pandemia. Ma quando avrà concluso il suo dottorato se ne andrà: “Se voglio lavorare in ambito scientifico, devo lasciare il paese”.

L’emigrazione dal Brasile verso i paesi dell’ Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) è in crescita da anni, ma è esploso nel 2017, con un aumento del 24 per cento rispetto all’anno prima. Circa il 30 per cento di tutti i brasiliani che vivono in paesi dell’Ocse ha un diploma universitario. Negli ultimi due anni le richieste di un visto permanente presentate da lavoratori qualificati brasiliani per entrare negli Stati Uniti, la principale destinazione per coloro che lasciano il Brasile, sono cresciute del 30 per cento, toccando i livelli più alti almeno degli ultimi dieci anni.

L’esodo è perlopiù il risultato dell’instabilità economica successiva alla recessione del periodo 2014- 2016. Ma è stato aggravato dal presidente populista Jair Bolsonaro, che considera gli accademici dei nemici. Il suo guru, Olavo de Carvalho, ha dichiarato che le università brasiliane sono un covo di droga, orge e propaganda comunista. Il bilancio dell’agenzia federale che finanzia la scienza è stato quasi dimezzato dal 2000, mentre il governo investe molto denaro perché i componenti delle forze armate, spesso sostenitori di Bolsonaro, vadano a studiare all’estero.

Nel 2015 il Brasile aveva superato paesi come la Russia e il Messico nelle spese per scienza, tecnologia e innovazione

L’Ufrj ha denaro sufficiente a rimanere attiva solo fino a settembre. Dopo tale data potrebbe dover chiudere laboratori e limitare alcuni corsi della didattica online. Almeno sei professori che hanno criticato le azioni del presidente durante la pandemia, che finora ha ucciso più di 540persone nel paese brasiliani, sono stati indagati dal governo.

“Vivere in un paese dove ci sono attacchi quotidiani alla scienza è molto sconfortante”, dice Ana Carneiro, una docente che studia la diaspora brasiliana presso la Unicamp, un ateneo dello stato di San Paolo. Ma non è un fatto nuovo. Durante la dittatura del 1964-1985, di cui Bolsonaro è un nostalgico, gli accademici furono tra le migliaia di esiliati. Il governo militare aveva uno slogan: “Brasile: amalo o lascialo”.

Dopo aver cominciato a ridurre i costi del gravoso sistema pensionistico pubblico nel 2019, Bolsonaro ha rinunciato a perseguire le riforme economiche necessarie per tornare alla crescita. Il paese stava ancora riprendendosi dalla recessione quando è arrivata la pandemia. Con appena il 17 per cento dei brasiliani pienamente vaccinato, la normalità economica appare ancora lontana. Nonostante un generoso programma pubblico di aiuti finanziari nel 2020, la povertà è triplicata. Il pil del primo trimestre ha superato le aspettative, ma il Brasile deve ancora fare i conti con una disoccupazione al 14,7 per cento, il massimo di sempre. Metà dei giovani dichiara che vorrebbe lasciare il paese se potesse farlo.

Bilanci fatti a pezzi
Non sono lontani i tempi in cui il Brasile offriva ai giovani ricercatori delle prospettive più allettanti. Tra il 2003 e il 2016 i governi del Partito dei lavoratori (Pt), guidati da Luiz Inácio Lula da Silva e poi da Dilma Rousseff, avevano creato 18 nuove università (alcune come filiali d’istituzioni esistenti). Nel 2015 il Brasile aveva superato paesi come la Russia e il Messico nelle spese per scienza, tecnologia e innovazione.

Ma anche ai tempi in cui il Brasile investiva in istruzione, esistevano degli imprevisti. Il programma Ciência sem fronteiras (Scienza senza frontiere) inaugurato nel 2011 da Rousseff, inviò quasi centomila brasiliani a studiare in più di trenta paesi nell’arco di sei anni. Ma al loro ritorno in patria non trovarono politiche rivolte a loro, dice Carneiro. Quando il programma era ancora attivo, un quarto di quanti avevano ricevuto una borsa diceva di voler proseguire una carriera fuori dal Brasile.

Esportando scienziati e le loro innovazioni, il Brasile sta perdendo la possibilità di costruirsi un peso tecnologico al suo interno. Più di un quarto del pil proviene ancora dall’agricoltura. I tagli alle borse di studio avviati dal successore di Rousseff, Michel Temer, si sono intensificati con Bolsonaro. Dopo che la gestione dell’economia durante la presidenza Rousseff ha portato alla recessione, le nuove università pubbliche hanno visto i loro bilanci fatti a pezzi. L’università federale di Cariri, nello stato di Ceará, nel nordest povero del paese, è stata fondata nel 2013 ma ha perso più dell’80 per cento dei suoi fondi di ricerca governativi negli ultimi quattro anni.

Il ministero degli esteri ha recentemente istituito un programma chiamato diplomazia dell’innovazione, nel tentativo di rafforzare i legami tra i brasiliani all’estero e il loro paese, per rafforzare il commercio e gli investimenti in patria. Ma i suoi obiettivi non sono ben definiti. Ed è probabile che molti di quelli che progettano di andarsene rimarranno all’estero finché la situazione in Brasile non migliorerà. “Avrei preferito non dovermene andare”, dice Gomes. “Ma non c’è niente per me qui”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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