24 marzo 2017 15:15

Quando l’ex ingegnere informatico di Google Patri Friedman ha avuto l’idea di costruire delle isole galleggianti, aveva in mente un compratore insolito: gli anarchici che desiderano poter vivere fuori dalla portata dei governi. Tuttavia il suo piano futuristico ha trovato oggi un nuovo pubblico, motivato e molto diverso da quello immaginato: gli abitanti delle isolette che sono gradualmente sommerse a causa dell’innalzamento del livello del mare.

La Polinesia Francese, nel Pacifico, sta cercando una possibile via di salvezza contro il riscaldamento globale, e lo scorso gennaio è diventata il primo paese a firmare un accordo per collocare le isole galleggianti al largo delle sue coste.

“I sogni appartengono a coloro che vogliono andare avanti e realizzarli”, ha dichiarato il ministro portavoce del governo polinesiano Jean-Christophe Bouissou in occasione di una cerimonia che si è volta a San Francisco, durante la quale ha firmato un memorandum di intesa con il Seasteading institute.

L’istituto, che nel suo nome combina le parole sea (mare) e homestead (terreno demaniale), è frutto dell’ingegno di Friedman e dell’investitore della Silicon valley Peter Tiel, che ha contribuito a fondarlo e ha versato più di un milione di dollari nel progetto delle isole galleggianti. Anche se oggi non è più coinvolto nell’istituto, Friedman sta portando avanti il progetto.

Un rischio crescente
Prospettando la possibilità di creare nuovi stati galleggianti ha conquistato molti seguaci tra chi pensa che le persone prosperano se possono vivere nella più totale libertà. È quanto sostiene Doug Bandow, ricercatore presso il Cato institute, un gruppo di lavoro di orientamento anarchico con sede a Washington.

Ma la possibilità di tenere a galla un territorio che sta affondando offre a questa tecnologia ulteriori opportunità. “Se gli stati e i territori insulari si sentono minacciati dall’innalzamento del livello del mare, questa potrebbe essere la loro migliore scappatoia”, ha detto Bandow. “Naturalmente la vita su una seastead, una proprietà in mezzo al mare, è molto diversa anche rispetto alla vita su un’isola. Eppure, se la prospettiva è quella del reinsediamento, forse questa è un’opzione migliore, che consente di restare nella regione invece di essere trasferiti in massa in un altro paese”.

Simili iniziative tecnologiche potrebbero distogliere l’attenzione dalla necessità di affrontare alla radice le cause del cambiamento climatico

Secondo il comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, le piccole isole del Pacifico sono molto più a rischio delle altre di essere sommerse poiché è previsto un innalzamento del livello del mare tra i 26 e i 28 centimetri entro la fine di questo secolo.

In una ricerca condotta nel 2013 su più di 1.200 isole controllate dai francesi, gli studiosi dell’università di Paris-Sud hanno rilevato che la Polinesia Francese e la Nuova Caledonia, entrambe nel Pacifico meridionale, corrono più di altri arcipelaghi il rischio di vedere le loro isole completamente sommerse. Secondo Bouissou, le città galleggianti rappresentano la classica “idea fuori degli schemi” che potrebbe risolvere il problema. Negli ultimi vent’anni le case di molti abitanti della Polinesia Francese (270mila persone) hanno subìto allagamenti più frequenti rispetto al passato.

Uno sguardo alle isole
In base ai termini dell’accordo siglato con la Polinesia Francese, il Seasteading institute studierà per prima cosa l’impatto economico e ambientale del progetto, e lo farà a sue spese. È quanto ha dichiarato Joe Quirk, un portavoce del progetto. Se lo studio dovesse dare un esito positivo, l’istituto cercherà di trovare i fondi da investire per installare tre piattaforme pilota alimentate a energia solare, ciascuna con una superficie di circa 2.500 metri quadrati.

Le isole, che in base al piano dovrebbero essere collocate in una laguna nei pressi di Tahiti, nella Polinesia Francese, rappresenterebbero una “zona economica speciale”, con la speranza di attirare compagnie tecnologiche. “Mi aspetto che i polinesiani e gli stranieri ci vivano e ci lavorino, e che gli alunni delle scuole possano farci delle gite scolastiche”, ha proseguito Quirk.

In un rendering si vede un’isola galleggiante punteggiata da palme che sostiene un edificio a più piani progettato per somigliare al fiore nazionale della Polinesia francese, la gardenia di Tahiti, afferma Quirk. I dettagli ingegneristici dell’isola devono essere ancora sviluppati, ha spiegato.

La costruzione delle isole, che l’istituto spera di finanziare con i soldi di eventuali investitori, dovrebbe costare tra i dieci e i 50 milioni di dollari (tra i 9,3 e i 46,5 milioni di euro) e comincerebbe già nel 2018. Quirk ha aggiunto che l’istituto sta cercando investitori interessati. “Non chiederemo soldi (alla Polinesia Francese). Chiederemo solo permessi e normative. E se il progetto dovesse fallire, assorbiremo i rischi. Smonteremo tutto e andremo via”, ha detto.

L’amaro in bocca
L’immagine di città galleggianti è stata accolta con un certo scetticismo. Michael Gerrard, direttore del Sabin center for climate change law alla Columbia university di New York, avverte che simili iniziative tecnologiche potrebbero distogliere l’attenzione dalla necessità di affrontare alla radice le cause dei cambiamenti climatici. “Le mie perplessità riguardano il fatto che a volte le persone spingono idee futuristiche di questo genere per dire che in fondo il cambiamento climatico non è poi così grave, perché se dovesse verificarsi troveremo un modo per affrontarlo”, ha dichiarato. “È evidente che la cosa più importante da fare è controllare le emissioni di gas serra, così da evitare che queste isole finiscano sommerse”.

Alexandre Le Quéré, un giornalista radiofonico della stazione Polynésie première nella Polinesia Francese, ha affermato che secondo lui il progetto delle isole galleggianti non ha ancora entusiasmato la maggior parte dei cittadini.

Quirk ha spiegato che il progetto del Seasteading institute di insediare una comunità su un’isola galleggiante al largo delle coste dell’Honduras nel 2015 è stato rinviato a causa dei disordini politici nel paese. L’istituto continua a dirsi ottimista sulla possibilità di riavviare quel progetto. L’iniziativa nella Polinesia Francese ha una maggiore possibilità di successi, ha proseguito Quirk, poiché per la prima volta l’istituto ha siglato un accordo con un paese ospitante.

Questo, secondo Bandow del Cato institute, potrebbe essere un fattore chiave. “Se si cominciano a trovare dei governi disposti quanto meno a prendere in considerazione un accordo, se si riesce a farne andare in porto almeno uno, all’improvviso tutta l’impresa appare molto più realizzabile”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it