23 gennaio 2015 15:23

Il 22 gennaio 2015, dopo più di un anno di discussioni e rinvii, la Banca centrale europea (Bce) ha lanciato un suo programma per l’acquisto di titoli, il cosiddetto quantitative easing (alleggerimento quantitativo, qe). Si tratta di uno strumento già usato da altre banche centrali – soprattutto la Federal reserve statunitense, la Bank of England e la banca centrale giapponese – per cercare di rilanciare l’economia dopo la crisi scoppiata nel 2008. Attraverso l’alleggerimento quantitativo una banca centrale stampa nuovo denaro per comprare titoli di stato e altre obbligazioni, prevalentemente da grandi istituzioni finanziarie. L’obiettivo è che i soldi, una volta entrati nel sistema, facilitino i prestiti e gli investimenti delle famiglie e delle imprese, aiutando i consumi, l’occupazione e in generale tutta l’economia.

Si propone questo anche Mario Draghi, il presidente della Bce. L’istituto di Francoforte, tra il marzo del 2015 e il settembre del 2016, comprerà ogni mese fino a 60 miliardi di euro di titoli sul mercato secondario, per un totale di circa 1.100 miliardi. L’obiettivo principale di Draghi è scongiurare il pericolo della deflazione nell’eurozona, cioè la discesa dei prezzi causata dal fatto che i consumatori e le aziende non spendono perché si aspettano di comprare a prezzi sempre più bassi in futuro: un meccanismo perverso che rallenta ancora di più i consumi e gli investimenti, affossando l’economia. Draghi, anzi, ha dichiarato che il provvedimento potrebbe essere esteso nel tempo se nel settembre del 2016 il tasso d’inflazione dell’eurozona non sarà tornato al livello perseguito dalla Bce, cioè il 2 per cento.

Gli osservatori sono stati sorpresi favorevolmente sia dall’ampiezza del programma sia dalla possibilità di un suo prolungamento a oltranza. Da questo punto di vista il piano è stato promosso a pieni voti. Come spiega Robert Peston sulla Bbc, il qe aumenta la possibilità di prendere in prestito denaro a tassi bassi e farà abbassare ulteriormente gli interessi pagati dai paesi in crisi sul loro debito. Ma un altro effetto positivo è un euro ancora più debole (unito al prezzo basso del petrolio) che “aiuterà gli esportatori dell’eurozona a vendere di più”. Draghi, inoltre, è riuscito a piegare l’opposizione della Germania, facendo riconoscere gli strumenti decisi come “adeguati nelle attuali circostanze e pienamente conformi ai trattati dell’Unione europea”.

I dubbi sorgono quando si considerano le modalità di attuazione del piano e i limiti imposti agli acquisti. La Bce può comprare al massimo il 33 per cento dei titoli di stato di un singolo paese, ma per quanto riguarda i titoli con un rating molto basso l’acquisto sarà possibile solo in presenza di un programma di assistenza della troika formata dalla Bce, dalla Commissione europea e dal Fondo monetario internazionale (in questo caso il pensiero va soprattutto alla Grecia). Il limite più discusso, però, riguarda la condivisione dei rischi. Chi sarà responsabile se uno dei paesi di cui la Bce ha comprato i titoli dichiara insolvenza? La Bce ha deciso che il 20 per cento dei titoli comprati nell’ambito dell’alleggerimento sarà a carico del suo bilancio: in questo caso la responsabilità sarà condivisa da tutti i paesi dell’eurozona.

Per quanto riguarda il restante 80 per cento, gli acquisti ricadranno sui bilanci delle singole banche centrali nazionali. Quest’ultima condizione è considerata una concessione di Draghi alla Germania, da sempre contraria all’intervento perché timorosa che gli acquisti di titoli distolgano i paesi in crisi dalle riforme e che un’eventuale insolvenza a carico della Bce costringa il contribuente tedesco a intervenire per coprire i buchi nel bilancio dell’istituto di Francoforte. Draghi ha sottolineato che l’assenza di una piena condivisione del rischio non compromette la riuscita del qe. Come nota il settimanale tedesco Die Zeit, infatti, la Germania si preoccupa di “rischi che esistono solo in astratto”, mentre sembra ignorare che “finora è stata il paese che ha ottenuto più vantaggi, non astratti ma concreti, dalla crisi dell’euro”. Resta il fatto, spiega il Financial Times, che la questione dei rischi dà l’idea di “un’unione monetaria che non è sempre una vera unione in tutte le circostanze”.

Nonostante i limiti e i dubbi, però, il piano di Draghi è una svolta decisiva per risollevare le sorti dell’euro. Anzi, una svolta che è stata rinviata troppo a lungo. Certo, sarebbe un errore considerarla la panacea di tutti i mali. L’azione della Bce non può avere successo se non si mette in moto anche la politica, introducendo le riforme necessarie all’eurozona, e in particolare ai paesi in crisi, per uscire dal tunnel.

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