02 marzo 2015 14:58
Una scena di Selma. (Atsushi Nishijima, Paramount pictures)

Era prevedibile che Selma, il film di Ava DuVernay sulla storia della legge che nel 1965 ha eliminato le discriminazioni nel diritto di voto ai neri, non vincesse l’Oscar come miglior film. Per vari motivi. Non ha i toni epici del film storico alla Lincoln né la profondità drammatica di 12 anni schiavo, e le interpretazioni di David Oyelowo nei panni di Martin Luther King e di Tom Wilkinson in quelli di Lyndon Johnson (ormai sembra che Hollywood riesca a parlare di schiavitù e diritti civili solo usando attori britannici) sono buone ma non straordinarie.

Ma resta comunque un ottimo film, importante e attuale, non solo perché quest’anno ricorrono i cinquant’anni dalla marcia di Selma e dall’approvazione del Voting rights act (la legge sul diritto di voto dei neri). Oggi, infatti, quelle conquiste sono sempre più in discussione. Nel 2013 la corte suprema degli Stati Uniti ha dichiarato incostituzionale e ha cancellato una norma della legge che obbligava gli stati a chiedere l’autorizzazione del governo federale prima di modificare le leggi elettorali locali. La sentenza è stata usata da molti stati governati dal Partito repubblicano (soprattutto al sud) per introdurre norme che in vari modi – per esempio rendendo più difficile la registrazione nelle liste elettorali o riducendo i giorni previsti per il voto anticipato – limitano l’accesso al voto dei cittadini delle fasce più povere della popolazione, che il più delle volte sono neri. Complessivamente almeno 22 stati hanno approvato leggi del genere tra il 2010 e il 2014.

Peccato, dunque, che il dibattito sull’eredità del movimento dei diritti civili sia stato oscurato da due mesi di polemiche e accuse per i presunti errori commessi dalla regista e dagli sceneggiatori nella ricostruzione degli eventi storici. Negli Stati Uniti l’ostilità è stata così generalizzata da riunire in un’improbabile coalizione storici di sinistra, opinionisti di destra ed ex funzionari politici di vari schieramenti. C’è chi ha definito il film scandaloso, chi bugiardo, qualcun altro ha detto che la ricostruzione di DuVernay è semplicemente sbagliata.

La maggior parte delle critiche riguarda il modo in cui è raccontato il rapporto tra Martin Luther King e Lyndon Johnson all’inizio del 1965, nei mesi precedenti l’approvazione del Voting rights act.

Il portabandiera del fronte antiSelma è Joseph A. Califano, consigliere di Johnson per gli affari interni tra il 1965 e il 1969. Il 26 dicembre Califano ha scritto un articolo sul Washington Post in cui ha accusato DuVernay di aver stravolto i fatti per aggiungere inutile drammaticità alla storia.

Il film lascia intendere che Johnson e King fossero in contrasto: il presidente sembra contrario al Voting rights act, si oppone alla marcia di Selma e addirittura usa l’Fbi per screditare King. La verità è che la marcia fu un’idea di Johnson, che considerava la legge per il diritto al voto degli afroamericani il suo obiettivo più importante da presidente e pensava che King fosse un partner fondamentale per raggiungerlo. E il presidente non ha mai usato l’Fbi per attaccare King.

Califano prosegue spiegando la strategia di Lyndon Johnson nei giorni di Selma per affermare che l’approvazione del Voting rights act è soprattutto il frutto della sua abilità. Poi fa riferimento alle registrazioni delle telefonate tra King e Johnson, che sono conservate nella biblioteca presidenziale Lyndon Johnson e si trovano online. “Tutto quel materiale era a disposizione dei produttori, degli sceneggiatori e della regista. Perché non l’hanno usato? Non si sentivano obbligati a controllare i fatti?”. Poi conclude dicendo che “il film dovrebbe essere ritirato dalle sale ed escluso dalla cerimonia degli Oscar”.

In realtà guardando le scene più contestate alla luce delle ricostruzioni storiche – e anche delle conversazioni tra King e Johnson citate da Califano – ne esce una storia un po’ diversa.

(Qui comincia lo spoiler).

La prima scena è quella in cui King viene ricevuto da Lyndon Johnson alla Casa Bianca subito dopo aver ritirato il premio Nobel per la pace. Sorrisi, congratulazioni, calorose strette di mano. Poi i due leader passano alle strategie da adottare per sradicare definitivamente la segregazione razziale (meno di un anno prima Johnson aveva firmato il Civil rights act, la legge che dichiarava illegali le discriminazioni nei luoghi pubblici e sul posto di lavoro, ma in tutto il sud le discriminazioni verso i neri non si erano fermate).

Tom Wilkinson nel ruolo di Lyndon Johnson e David Oyelowo nella parte di Martin Luther King in una scena del film. (Atsushi Nishijima, Paramount pictures)

Qui emerge il primo dissidio: King vorrebbe subito una legge che garantisca e rafforzi il diritto di voto dei neri; Johnson non crede che sia politicamente fattibile e propone di puntare su provvedimenti per ridurre la povertà, rimandando la questione del voto a un momento politicamente più favorevole. In nessun momento Johnson sembra apertamente contrario alla proposta di King, come invece sostiene Califano. Più che altro non è d’accordo sulla tempistica. Una lettura confermata da una telefonata del 15 gennaio 1965, in cui Johnson spiega chiaramente a King quali sono le sue priorità: prima la legge sull’istruzione e sulla povertà, “poi ci occuperemo delle qualifiche degli elettori”.

La lettura di DuVernay riflette in modo onesto la situazione politica complicata in cui si trovava Johnson in quel momento: stretto tra l’ambizione di passare alla storia come il presidente che avrebbe definitivamente messo fine alla segregazione e la necessità di conservare il sostegno dei governatori e dei rappresentanti democratici del sud, spaventati da una legge che avrebbe portato all’elezione di rappresentanti neri e fatto vacillare il sistema di potere costruito dai bianchi dopo la guerra civile.

Altre due affermazioni di Califano – secondo cui è stato Johnson a convincere King dell’importanza di una legge per il diritto al voto e ad avanzare l’idea di organizzare la marcia di Selma – sono quanto meno discutibili. L’ex funzionario si riferisce alla stessa telefonata del 15 gennaio 1965 in cui Johnson dice a King che “niente può essere più efficace come il diritto di voto” e gli consiglia di individuare la situazione più problematica in Alabama, Louisiana, Mississippi o South Carolina e partire da lì per combattere la sua battaglia. In realtà King stava lavorando alla campagna per il diritto al voto da almeno due anni. Inoltre, al momento della conversazione il leader per i diritti civili stava già andando a Selma e decine di attivisti erano già lì per organizzare la resistenza pacifica e la marcia verso Montgomery. Non lo disse a Johnson perché sapeva che il presidente l’avrebbe considerata una mossa rischiosa e politicamente sbagliata.

Il film è fedele a questa ricostruzione storica: per tutto il tempo mostra due leader politici d’accordo sull’obiettivo finale, ma con strategie e priorità politiche diverse.

La scena che ha fatto saltare sulla sedia molti commentatori è quella in cui Johnson, arrabbiato per l’intransigenza di King sulla marcia di Selma, chiede al suo assistente di chiamare al telefono J. Edgar Hoover, il direttore dell’Fbi. È il momento più controverso di tutto il film, perché il montaggio lascia intendere che il presidente abbia ceduto alle pressioni di Hoover, che qualche scena prima gli aveva consigliato di usare mezzi sporchi per rovinare il matrimonio e la reputazione di King. Non sappiamo se il presidente abbia fatto quella telefonata, ma è risaputo che l’Fbi, dal primo mese del mandato Johnson, ha intercettato, seguito e in alcuni casi minacciato Martin Luther King, la sua famiglia e i suoi collaboratori più stretti. Johnson sapeva del programma di spionaggio e l’ha cancellato solo nel 1966, più o meno un anno dopo la marcia di Selma.

I commentatori che hanno criticato ferocemente il film hanno volutamente ignorato la scena in cui Johnson prende le distanze da George Wallace, il governatore razzista dell’Alabama, e quella in cui chiarisce che King è l’unico interlocutore possibile. E hanno ignorato anche il fatto che DuVernay scelga di chiudere il film proprio sul discorso con cui Johnson propone il Voting rights act al congresso.

DuVernay, insomma, ha realizzato un film leale: ha smontato la storia e ha rimesso insieme i pezzi per costruire un racconto che, indubbiamente, fornisce allo spettatore una chiave di lettura abbastanza chiara. Un punto di vista sintetizzabile nell’idea, piuttosto trascurata dalla storiografia del movimento dei diritti civili degli anni sessanta, che le vittorie di quegli anni siano state il frutto delle lotte dal basso più che di un’abile strategia calata dai vertici.

Ma la sua interpretazione è sempre sostenuta dai fatti. La regista ha ricostruito i fatti ma non li ha inventati. Sviluppare la storia senza stravolgerla: è quello che dovrebbero cercare di fare i film che raccontano eventi politici realmente accaduti (a meno di non pensare che un’opera del genere debba basarsi sull’attinenza testuale ai fatti, ma a quel punto sarebbe un documentario).

Il paradosso è che molto probabilmente Selma passerà alla storia come il film che ha descritto Lyndon Johnson come un vecchio razzista del sud. E invece è un ottimo film, che ha il merito di rispettare la complessità della storia e dei personaggi coinvolti e di non cedere mai alla retorica e all’autocelebrazione. Neanche quando racconta la parte più intima della vita di Martin Luther King, descritto come un uomo autoironico, tormentato, realista (in alcuni casi perfino pessimista) e pragmatico, che decide di mandare centinaia di persone a manifestare sul ponte Edmund Pettus di Selma pur sapendo che molto probabilmente saranno massacrate. Un’immagine completamente diversa da quella dell’idealista carismatico, quasi soprannaturale, a cui siamo abituati. Il film, in fine dei conti, è la storia delle strategie politiche, dei tatticismi, delle piccole scelte individuali che resero possibile una delle vittorie più importanti del movimento dei diritti civili.

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