14 ottobre 2014 13:07

Il mio amico B vive a Ramallah e ha ottenuto un permesso per entrare in Israele. Ha un impiego presso un’organizzazione internazionale, che lo ha aiutato con la burocrazia.

Questo rende B un privilegiato, perché può attraversare i checkpoint. Così abbiamo deciso di andare in auto a Tel Aviv e di attraversarne uno gestito da un’azienda di sicurezza privata.

Al checkpoint ci hanno chiesto di mostrare i documenti. L’agente, un immigrato etiope, è stato molto educato (una novità). Ha spiegato a B che non poteva attraversare il checkpoint all’interno della mia auto, ma avrebbe dovuto seguire il percorso riservato ai palestinesi. Protestare non aveva senso, così B è sceso dalla macchina, ha aspettato che il suo documento fosse registrato elettronicamente e poi mi ha raggiunto dall’altra parte del confine.

In questo checkpoint c’è un terzo tipo di trattamento. I cittadini arabi di Israele devono subire perquisizioni corporali molto accurate e controlli alle loro auto. È un procedimento umiliante, mi ha raccontato un amico. Più di una volta ho provato a ricevere questo trattamento, ma non ci sono riuscita perché si sono sempre accorti che ero ebrea.

Un checkpoint, un paese, tre diversi trattamenti. Il terreno su cui è costruito il checkpoint è stato espropriato al villaggio palestinese di Ni’ilin. Ogni volta che lo attraverso mi maledico, perché implicitamente collaboro con questo sopruso. Ma non c’è molto che io possa fare, a parte lasciare il paese.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato il 10 ottobre 2014 a pagina 28 di Internazionale, con il titolo “Tre diversi trattamenti”. Compra questo numero | Abbonati

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