03 ottobre 2016 19:00

Per motivi che ignoro, la mia pagina Facebook riceve continui messaggi dall’account di un progetto residenziale israeliano chiamato “Una villa a Naaleh”. Ci sono tanti commenti. Un uomo scrive: “È un progetto di grande qualità. Non ho resistito alla tentazione di acquistare una casa. È una bella comunità con un ambiente giovane e laico, nel cuore del paese”. Una donna: “Ho seguito l’esempio di mio figlio e ho comprato anch’io una casa. C’è la migliore pizza del paese”.

C’è chi chiede se i lotti sono stati registrati legalmente. Naturalmente sì. Qualcuno lamenta il fatto che i prezzi non sono scritti, quindi bisogna telefonare. Una donna chiede se è possibile costruire una piscina. La risposta è sì. Un’altra chiede dove si trova esattamente il complesso. L’account risponde: “A dieci minuti dalla (relativamente nuova) città di Modiin”.

Quello che l’account non dice è che il complesso si trova nel cuore della Cisgiordania occupata, che è stato costruito su terre dei villaggi palestinesi e che per entrare o uscire i residenti devono attraversare un checkpoint militare. Ma in fondo che problema c’è? Gli arabi israeliani sono sottoposti a controlli approfonditi. I palestinesi della Cisgiordania possono entrare nel complesso solo se hanno un permesso di lavoro o di movimento, e comunque subiscono perquisizioni ancora più invasive e scrupolose, in una fila a parte, lontano da occhi indiscreti. Ma sono sicura che ai potenziali acquirenti tutto questo non interessa.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 30 settembre 2016 a pagina 25 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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