17 ottobre 2016 18:23

Un uomo scrive un post su Facebook o un articolo su internet. Non importa su quale sito, quel che conta è che viene arrestato. Ha criticato una certa politica ufficiale, non importa quale. Tra l’altro circolano versioni diverse sulla vicenda. Un giornalista conosciuto e rispettato scrive un articolo in difesa dell’uomo, ma il suo articolo è respinto dal giornale per cui lavora da vent’anni. Il giornale respinge anche un articolo firmato da un collaboratore su un altro tema: i possibili eredi di un vecchio leader.

L’uomo arrestato è da sempre un corrotto, mi rivela un ex collega. È diventato corrotto solo di recente, mi dice un altro. Ha sempre abusato della sua posizione, insiste il primo. Ma non è importante, perché la sua presunta corruzione non è mai stata un problema per il regime. L’aspetto principale è il messaggio inviato all’uomo e agli altri: non dovete criticare le politiche ufficiali e l’uomo che le stabilisce, il presidente Abu Mazen. Di recente alcuni giornalisti hanno ricevuto messaggi simili: tenete la bocca chiusa su certi argomenti. E la minaccia funziona.

Contemporaneamente decine di palestinesi sono arrestati dal governo israeliano per i loro post su Facebook che inciterebbero all’odio. Passano mesi in prigione e pagano multe salate. Magari poi faranno più attenzione. Questo non impedisce però ad altri di scrivere un post per elogiare chi uccide israeliani o per chiedere una nuova intifada.

Ma è la repressione interna, ovviamente, quella più difficile da sfidare.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 4 marzo 2016 a pagina 94 di Internazionale, con il titolo “Perché colorare la storia?”. Compra questo numero| Abbonati

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