18 aprile 2016 14:54

Noi leggiamo le notizie per farci un’idea del mondo. È noto e ovvio che quest’idea del mondo, però, è mediata dallo sguardo, dalle opinioni, dalle conoscenze e perfino dallo stile di chi scopre, sceglie, interpreta e confeziona le notizie. Si tratta per forza di cose di un’idea parziale: non corrisponde certo all’intero universo dei fatti che succedono, così come succedono.

Se sentiamo il bisogno di renderla meno parziale, ci diamo da fare e mettiamo a confronto diversi sguardi e opinioni, consultando fonti differenti. Se siamo molto scrupolosi, verifichiamo anche l’affidabilità e l’autorevolezza delle fonti. E cerchiamo di non farci intrappolare dai pregiudizi.

Ci sono, però, alcuni elementi un po’ meno noti che, nonostante le nostre buone intenzioni, complicano il processo di farci un’idea del mondo sensata, equilibrata e utile. Tutti noi da una parte tendiamo a sovrastimare l’importanza e il peso di ciò che ricordiamo più facilmente, nella misura in cui ne leggiamo o sentiamo parlare spesso, o con toni accesi e urgenti.

Dall’altra, tendiamo a cercare fonti che confermano le nostre sensazioni e opinioni pregresse, e a fidarcene di più. Dall’altra ancora, se siamo esposti a due fatti di rilievo paragonabile, uno positivo e uno negativo, restiamo più colpiti dal fatto negativo.

Il cortocircuito delle convinzioni

Siamo portati a compiere, insomma, degli errori di giudizio, i cui meccanismi sono stati ampiamente indagati. Questi errori di giudizio sono frutto di euristiche e bias cognitivi, cioè di modi o sbrigativi o distorti di interpretare le informazioni di cui disponiamo.

Nello specifico, è il bias di conferma (confirmation bias) che ci porta a privilegiare informazioni che concordano con le nostre attese. È l’euristica della disponibilità (availability heuristic) a farci sovrastimare la probabilità che si verifichino fatti le cui coordinate sono vividamente impresse nella nostra memoria.

Ma le buone notizie sono davvero poche, o invece ci sembrano sempre poche?

È, infine, il bias della negatività (negativity bias) a far sì che gli elementi negativi catturino la nostra attenzione in modo più prepotente: questo, tra l’altro, vuol anche dire che li ricorderemo di più, e più a lungo, cortocircuitando negatività, disponibilità, conferme.

Ed eccoci al punto.

Il punto è, letteralmente, il punto di Paolo Pagliaro che, qualche giorno fa, all’interno della trasmissione Otto e mezzo ha mandato in onda un breve servizio televisivo con cinque buone notizie, trasmesse con l’esplicita intenzione di “mettere da parte l’acredine e l’insoddisfazione per quel che ci manca, allietandoci per ciò che abbiamo”. Qui potete leggere il testo.

Ma le buone notizie sono davvero poche, o invece ci sembrano sempre poche?

Vorrei scriverlo tutto in maiuscolo, ma temo che il rigoroso manuale di stile di Internazionale possa impedirmelo. Be’, fate conto che sia scritto in maiuscolo: questo non è un articolo buonista o filogovernativo.

In realtà, le notizie positive ci sarebbero. Ma è come se, nella percezione collettiva, fosse valido non solo il noto detto “nessuna nuova, buona nuova”, ma anche il suo contrario, “buona nuova, nessuna nuova”. Dovremmo però tutti, e anche i mezzi d’informazione, ricordare che non è così, provando a contrastare il bias della negatività. Ehi, è un bias! Una fallacia. Un errore di giudizio.

Sarebbe giusto e utile trovare un po’ più spesso sui mezzi d’informazione notizie buone, non solo per sentirci meno insoddisfatti, ma anche per farci un’idea più equilibrata del mondo, rompendo il cortocircuito: attenzione alle cattive notizie/ricordo esclusivo di cattive notizie/previsione di ulteriori cattive notizie/attenzione alle cattive notizie…

Ho in mente due esempi di notizie positive e invisibili. Uno è recente: il sindaco di Riace, per la sua capacità di integrare i migranti, è stato inserito da Fortune nella lista delle personalità che stanno cambiando il pianeta. In Italia la sua attività è passata per anni sotto totale silenzio: a Riace arrivano Wim Wenders, Bbc e Fortune, prima che la Rai. Ma perché?

L’altro caso risale a qualche tempo fa e riguarda due fatti inediti in Italia. Vi ricordate la terribile, spaventosa, strage al tribunale di Milano, quando un uomo superò i metal detector armato di pistola e sparò uccidendo tre persone, tra cui il suo giudice? Immagino di sì.

Steven Pinker ci ricorda che stiamo vivendo nell’era più pacifica dell’evoluzione umana, ma non ce ne accorgiamo

Vi ricordate che nel medesimo giorno fu data la notizia del primo trapianto di rene da donatore vivente samaritano (cioè senza nessun legame con il ricevente)? E, soprattutto, vi ricordate che questa prima donazione samaritana ha salvato sei vite, innescando, attraverso un meccanismo di scambi incrociati, altre cinque donazioni?

In sostanza, come in un domino chirurgico, i parenti disposti a donare un rene, ma incompatibili con il loro congiunto, mettono il loro organo a disposizione di altri, i cui congiunti fanno altrettanto. Tutto questo succede in una manciata di ore e coinvolge quattro diversi ospedali, in due diverse regioni, da Pavia a Siena, a Milano, di nuovo a Siena, Pisa e Milano, in una corsa contro il tempo e il destino.

È una storia che integra scienza, tecnologia, medicina, pathos, generosità, umanità, speranza, futuro. Immagino che non ve ne ricordiate: se oggi digito “strage tribunale Milano” trovo quasi 500mila risultati. Se digito “trapianto rene samaritana” ne trovo meno di cinquemila.

Nel 2011 Steven Pinker pubblica The better angels of our nature, tradotto in italiano con il titolo Il declino della violenza. La tesi, sostenuta da un’enorme quantità di dati, è che stiamo vivendo nell’era più pacifica di tutta l’evoluzione umana, grazie al consolidarsi dei commerci e dei governi. Ma non ce ne accorgiamo.

Presentando il libro, Pinker ha scritto sul Wall Street Journal proprio questo: “Tendiamo a stimare la probabilità di un evento secondo la facilità con cui possiamo ricordarne degli esempi – ed è molto più probabile che siano trasmesse in tv e incise nella nostra memoria scene di massacro invece di riprese di persone che muoiono di vecchiaia. Ci saranno sempre scene di violenza sufficienti per riempire il notiziario della sera e così le percezioni degli orrori continueranno a essere sconnesse dalla loro reale probabilità”.

Vogliamo cominciare a parlare di tutto questo? Non so se per voi è una buona notizia, ma prometto che tornerò sull’argomento a breve.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it