19 novembre 2004 21:00

L’Italia vorrebbe entrare nell’era digitale. Ma qualcuno deve pur dirlo a Calderoli, Castelli e al loro governo: l’era digitale è quella in cui in ogni cabina telefonica pubblica ci sono una tastiera, uno schermo, un elenco telefonico elettronico e un accesso a internet, come avviene in Svizzera.

Non è quella dove a ogni lavoratore marocchino o canadese vengono prese le impronte digitali come a un delinquente. Se a Zurigo dovessero prendere le impronte ai non elvetici, dovrebbero prenderle a un cittadino su tre, un’impresa impossibile perfino per gli svizzeri.

Così l’unica impronta delle decine di migliaia di sud e nordamericani, africani, arabi, turchi, balcanici, asiatici che vivono a Zurigo è quella che lasciano sulla città: un luogo cosmopolita e tollerante, dove gli opuscoli del comune sono scritti in otto lingue, dove si vedono facce, cibi e vestiti di tutti i colori e di tutti i continenti, dove lo straniero licenziato è aiutato a trovare un nuovo lavoro e riceve per un certo tempo un sussidio di disoccupazione invece di essere messo sul primo aereo per il suo paese, come si vorrebbe fare in Italia.

Migranti a Catania il 26 ottobre 2010. (Antonio Parrinello, Reuters/Contrasto)

Nella stazione di Zurigo c’è una piccola modernissima chiesa per i viaggiatori; è gestita da protestanti e cattolici, ma dentro ci sono anche i tappetini per i musulmani e una freccia che indica – con precisione svizzera – la direzione della Mecca. Siamo ad anni luce dall’Italia, il cui governo si regge anche su politici che vanno in piazza al grido di “polenta sì, couscous no” e che sono andati a versare urina di porco sul terreno comprato dalla comunità musulmana per costruire una moschea.

Che faccia faranno non solo i manovali albanesi ma anche il direttore d’orchestra israeliano – per esempio Zubin Metha –, lo scrittore statunitense – per esempio Gore Vidal – o l’ingegnere canadese quando, venendo a lavorare in Italia, troveranno un poliziotto a prendergli le impronte digitali come si fa con chi entra in carcere? Come si sarebbero sentiti le decine di milioni di emigrati italiani degli ultimi centocinquant’anni se, appena arrivati all’estero, fossero stati accolti prendendo loro le impronte digitali? I più erano laboriosi e onesti.

Ma ci siamo dimenticati che l’Italia è stata per decenni anche un paese leader nell’esportazione della delinquenza, arrivando a dominare con le famiglie siciliane di Cosa Nostra il mercato criminale più competitivo, quello degli Stati Uniti?

Ettari extracomunitari

Certo, anche tra gli immigrati ci sono fuorilegge e forse ne vengono in proporzione più in Italia che non in altri paesi. Ma perché meravigliarsi di questa forza di attrazione? L’Italia, un tempo patria del diritto, è diventata la patria del rovescio: i fuorilegge riscrivono le leggi, gli imputati giudicano i giudici. Stando al numero di fuorilegge e di imputati nella maggioranza parlamentare e nel governo, sembra proprio che la capacità di infrangere le leggi in Italia venga premiata invece di essere punita.

Insomma, questa storia delle impronte digitali – la nuova legge le chiama “fotodattiloscopie” – sta facendo fare una brutta figura all’Italia. Ma chi sono davvero gli invasori? Perché il governo italiano parla solo delle impronte digitali degli extracomunitari e non parla mai delle impronte ecologiche degli italiani? Cioè delle impronte che noi lasciamo in tutto il mondo per vivere come viviamo, ben al di sopra dei nostri mezzi ecologici?

L’impronta ecologica è un indicatore molto utile, l’ha sviluppata negli ultimi quindici anni Mathis Wackernagel, un ingegnere svizzero che lavora a San Francisco presso l’istituto di ricerca economica Redefining Progress (rprogress.org, footprintnetwork.org).

Da qualche anno questo indicatore è diventato uno dei parametri economici e ambientali usati anche dal settimanale The Economist nelle sue inchieste e nelle sue raccolte di dati internazionali. L’impronta ecologica è la quantità di territorio fertile necessaria per produrre le risorse e per assorbire i rifiuti e le emissioni generati dai consumi di un popolo.

Comparando le loro diverse impronte ecologiche si può vedere quali nazioni consumano più natura di quella che hanno sotto i piedi e quali ne consumano di meno. Negli Stati Uniti un cittadino dispone in media di cinque ettari fertili, ma ne adopera dieci; un italiano ne ha uno e ne adopera quattro; un brasiliano ne ha sei e ne adopera due.

Una parte degli ettari fertili brasiliani per esempio serve a produrre legnami, arance e caffè consumati dagli europei oppure ad assorbire nelle foreste una parte dell’anidride carbonica prodotta dagli europei bruciando carbone, petrolio e gas. Quindi, per sostenere il nostro livello di consumi materiali noi utilizziamo molto più territorio fertile di quello su cui viviamo. Gli abitanti di molti paesi meno industrializzati invece ne utilizzano meno di quanto ne abbiano nei loro confini. Chi sono allora gli “invasori”?

Quegli abitanti dei paesi meno industrializzati che a causa della loro miseria invadono le nostre terre con le loro braccia, venendo da noi a produrre? Oppure gli abitanti dei paesi più ricchi che approfittano di una parte delle terre altrui per poter continuare a consumare al di sopra dei loro mezzi?

Discariche piene e asili vuoti

Dopo decenni di crescita con poco sviluppo e di consumismo con poca cultura, il numero elevato di telefonini, automobili e metri cubi di cemento pro capite ci ha fatto dimenticare di quanto straccioni eravamo, di quanto ignoranti ancora siamo e di quante decine di milioni di italiani sono emigrati all’estero. L’Italia è al primo posto nel mondo per percentuale di popolazione anziana (oltre i 65 anni).

In Europa siamo il paese che si riproduce di meno e che – per molti tipi di merci – consuma di più. Mentre le nostre discariche rapidamente si riempiono, i nostri asili lentamente si svuotano. Eppure, con una percentuale di stranieri molto più bassa di quella svizzera (due su dieci) o tedesca (uno su dieci), in Italia (uno straniero ogni trenta italiani) il governo, alcuni politici e alcuni mezzi di comunicazione stanno fomentando una psicosi da paese invaso.

Tutti impegnati a produrre e consumare, in Europa sembriamo dimenticare due cose. Primo: occorre un certo equilibrio tra produzione e riproduzione. Mentre ci ingozziamo sempre più di pubblicità per riuscire a vendere tutto quello che produciamo, l’Europa avrebbe bisogno di mezzo milione di immigrati ogni anno se volesse continuare a produrre e consumare tutte queste mercanzie. Se allora lavorassimo un po’ di meno – per esempio 20-30 ore alla settimana – e ci dedicassimo di più alla riproduzione, alla famiglia, alla cultura, agli amici?

Secondo: noi europei abbiamo invaso gli altri continenti per quasi cinquecento anni e non siamo andati per il sottile: schiavismo, massacri, stermini di interi popoli, annientamento di culture millenarie, depredamento di risorse naturali.

I crimini degli attuali trafficanti di clandestini o della piccola delinquenza importata impallidiscono di fronte a quelli che i nostri eserciti e molti dei nostri mercanti hanno commesso fino a ieri nel mondo.

Dopo cinquecento anni il pendolo delle migrazioni inverte il suo corso e l’Europa diventa stazione di arrivo invece che stazione di partenza. Dovremmo solo ringraziare il cielo che anche i migranti sembrano aver perso come noi la memoria della storia: invece di venire a regolare i conti di secoli di rapine, vengono in Europa per lavorare e pagano le nostre pensioni al posto dei figli che non facciamo. Eppure c’è chi riesce lo stesso a odiarli.

Internazionale, numero 556, 10 settembre 2004

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