22 giugno 2018 16:39

Alla vigilia delle elezioni turche del 24 giugno la situazione è questa. L’opposizione spera nel crollo dal sistema corrotto e totalitario del presidente Recep Tayyip Erdoğan, immaginando che basti votare per un nuovo presidente e per un nuovo parlamento per dare l’avvio a una nuova epoca di democrazia. Ma i problemi del paese sono troppo complicati per essere risolti così. Dal punto di vista elettorale Erdoğan ha perso già da tempo: esattamente dalle legislative del 7 giugno 2015, quando per la prima volta la maggioranza degli elettori ha votato contro il suo regime. Sotto il profilo politico, invece, la sconfitta di Erdoğan risale al 2013 ed è il risultato della violenta repressione delle proteste del parco Gezi e delle gravi accuse di corruzione rivolte ai suoi più stretti collaboratori.

In questa situazione Erdoğan sarà disposto a cedere volontariamente il potere dopo un’eventuale sconfitta elettorale? Nella Turchia di oggi la risposta a questa domanda, che in una democrazia sarebbe scontata, è no. Erdoğan vincerà di nuovo perché non può permettersi di perdere.

Il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) è arrivato al governo vincendo le elezioni, ma non mollerà il potere dopo un voto democratico. Se succederà, tutti i dirigenti, a cominciare da Erdoğan e dai suoi fedelissimi, si troveranno a dover affrontare la giustizia in un’aula di tribunale, dove dovranno rendere conto delle loro innumerevoli azioni illegali e anticostituzionali. La cosa è evidente. Inoltre, dato il ruolo svolto nella guerra in Siria, i vertici dell’Akp rischiano un processo alla corte penale internazionale. Erdoğan sembra quindi determinato a non lasciare nulla al caso e a fare tutto il possibile per vincere.

In cerca della maggioranza
Considerate i seguenti fatti e decidete voi stessi se le elezioni possono essere considerate libere e imparziali: il voto si svolgerà in stato d’emergenza; l’opposizione non riesce a trovare visibilità sui mezzi d’informazione; il comitato elettorale è sotto lo stretto controllo del regime, come i seggi elettorali e le 181.863 urne; per entrare in parlamento bisogna superare un’altissima soglia di sbarramento, fissata al 10 per cento; i giornali e le tv sono totalmente controllati dal governo; alla maggioranza della popolazione sono stati concessi benefici e bustarelle preelettorali (per esempio un bonus di 375 euro per 12 milioni di pensionati, un condono per 13 milioni di edifici costruiti illegalmente, una sanatoria sui capitali fatti rientrare nel paese, un taglio alle tasse sul carburante e all’iva sugli immobili). Nel frattempo il governo ha cavalcato il nazionalismo e l’orgoglio nazionale, tanto all’interno del paese quanto verso i paesi vicini.

L’obiettivo più importante per la macchina elettorale del regime è fare in modo, attraverso brogli e violenze diffuse, che il Partito democratico dei popoli (Hdp, filocurdo) non superi la soglia di sbarramento. In questo modo il partito di Erdoğan otterrebbe automaticamente sessanta deputati in più, necessari per avere la maggioranza assoluta in parlamento.

Tutto si saprà la sera del 24 giugno o al più tardi l’8 luglio, se le elezioni presidenziali dovessero andare al ballottaggio. Ma diamo un’occhiata più da vicino a quello che potrebbe succedere dopo il voto.

Debolezze strutturali
Erdoğan s’illude di poter riportare il paese alla normalità con un governo ancora più forte. Il cosiddetto “blocco d’opposizione”, che non ha nessun programma comune se non essere contro Erdoğan, è invece convinto che, in caso di vittoria di un candidato diverso dal presidente in carica, sia possibile un vero cambiamento. Ma è un’illusione. Un eventuale governo guidato da un partito diverso dall’Akp erediterebbe infatti un disastro istituzionale. Le istituzioni statali, le università, le amministrazioni locali, l’esercito, la diplomazia e la giustizia sono state distrutte da Erdoğan, soprattutto negli ultimi quattro anni. La Turchia sta diventando rapidamente un paese ingestibile, indipendentemente da chi vincerà le elezioni.

Prima di tutto perché nel corso degli anni Erdoğan ha commesso una serie di errori economici: ha rinunciato a fare riforme radicali e ha finito per rendere la Turchia dipendente da alti tassi d’interesse, nel tentativo di continuare ad attirare investimenti speculativi per tenere a galla l’economia. Mancanza di una sicurezza per gli investimenti, disoccupazione alle stelle, crescita limitata e basata solo su infrastrutture, energia e consumi interni, scarsi investimenti in ricerca e sviluppo, un sistema educativo pessimo, poche esportazioni di alta tecnologia (appena il 2 per cento delle esportazioni manifatturiere), mancanza di risorse naturali, un livello molto basso di risparmi, un sistema fiscale obsoleto, investimenti esteri ai minimi termini e ultimamente una preoccupante fuga di cervelli: sono tutti problemi strutturali che determinano una miscela esplosiva.

Alcune statistiche illustrano bene queste debolezze strutturali. Negli ultimi dodici mesi l’economia è cresciuta quasi dell’8 per cento ma nello stesso periodo il premio dei credit default swap (Cds, contratti derivati che assicurano gli investitori contro il rischio di non essere rimborsati) è passato da 187 a 311, non lontano dalla quota 317 della Grecia. Alla fine del 2017 il debito estero era di 390 miliardi di euro, mentre il debito interno ammontava a 104 miliardi. In totale siamo al 70 per cento del pil.

Inflazione, tassi d’interesse, disavanzo della bilancia commerciale, rapporto tra debito pubblico e pil, disavanzo di bilancio: tutti questi indicatori stanno salendo, mentre la lira turca perde valore. Nonostante la Turchia abbia già concordato 19 piani di prestiti con il Fondo monetario internazionale, l’ultimo nel 2008, potrebbe presto dover chiedere altri soldi. Indipendentemente da come andranno le elezioni, l’economia turca è sull’orlo del collasso.

Oltre alla difficile situazione economica, oggi appare insostenibile anche la politica estera aggressiva seguita negli ultimi anni. I problemi con l’Iraq, l’occupazione militare della Siria, la linea nettamente anticurda, le scaramucce con Cipro sulle prospezioni per il gas naturale e con la Grecia sulla sovranità di qualche isolotto nel mar Egeo, i rapporti sempre più complicati con i paesi vicini e con gli alleati occidentali: Ankara ha messo troppa carne al fuoco. A questo si aggiungono la questione dei profughi siriani presenti nel paese e le centinaia di migliaia di jihadisti bloccati al confine tra Siria e Turchia. Infine c’è, più forte che mai, il rischio di un conflitto interno. La società turca è profondamente divisa e le spaccature non seguono una sola linea. Religiosi contro laici, sunniti contro aleviti, turchi contro curdi, sostenitori di Erdoğan contro il resto della popolazione. In caso di vittoria dell’Akp ci potrebbe anche essere un esodo in massa di popolazione.

Per governare Erdoğan avrebbe bisogno di fare scelte politiche più dure di quelle attuali. E lo stesso vale per l’opposizione. Dopo un’iniziale “liberalizzazione” e alcune misure contro le vecchie politiche dell’Akp, i nuovi governanti rischierebbero di trovarsi in una situazione critica, con la necessità d’imporre un pesante programma economico dettato dall’Fmi e severi provvedimenti per riparare i danni fatti e ripristinare le istituzioni statali. Per ora l’unico elemento d’incertezza è quando comincerà il crollo.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito il 22 giugno 2018 nel numero 1261 di Internazionale, a pagina 22.

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