16 luglio 2015 15:07

La tormentata vicenda della Buona scuola sembra arrivata alla fine: il 9 luglio la riforma è stata approvata alla camera. Le proteste degli insegnanti invece no: continuano nonostante la chiusura delle scuole, il caldo, la stanchezza di una mobilitazione faticosa durata quasi un anno.

Nell’ultima settimana molti insegnanti hanno cominciato uno sciopero della fame, per esempio, per convincere il presidente Sergio Mattarella a non firmare la legge; alla fine invano. Ce n’erano un centinaio domenica scorsa a Roma, in rappresentanza di almeno trenta gruppi provenienti da tutta Italia, in un incontro nazionale utile a capire come agire ora. Ce ne sono centinaia di migliaia che sono pronti a riorganizzare dibattiti, iniziative, manifestazioni.

Occorre fare un’osservazione preliminare. Ogni volta che in questi mesi mi sono ritrovato con gli insegnanti impegnati in assemblee, sit-in, flashmob, cortei, ho avuto un’impressione diametralmente opposta a quella che li vuole improvvisati, ideologici, “capaci di dire solo no”.

Così anche domenica scorsa, nella riunione che era stata convocata dai comitati della Lip (Legge d’iniziativa popolare) l’elemento indiscutibile era la preparazione tecnica e la qualità del discorso politico dall’altra. Poca voglia di perdersi in proclami altisonanti, molto realismo nel buttare giù l’agenda dei prossimi mesi, ottime citazioni.

È anche utile comprendere cosa vuol dire il movimento della scuola.

Si possono citare le sigle presenti l’altro giorno, sindacati e partiti: Flc, Gilda, Cobas… Citare parlamentari e politici, i delegati di Sel, Possibile, Rifondazione comunista, L’altra Europa, Movimento 5 stelle, ex dirigenti del Partito democratico come Stefano Fassina… Ma anche questo non definisce ancora il carattere della protesta, primo perché bisogna includere altre sigle – come Cisl e Uil – ma soprattutto perché molte delle persone coinvolte non hanno nemmeno appartenenza, e quando si presentano si dichiarano “autoconvocati”, “autorganizzati” o, più creativamente, nomi come Gessetti Rotti: hanno cominciato a fare politica sulla scuola senza una rappresentanza precisa; o meglio, molti di loro ce l’avevano, ma ne hanno preso le distanze.

“Io mi sono iscritto al Pd il 3 gennaio e mi sono disiscritto il giorno dopo”, “I due milioni di voti che il Pd ha perso alle ultime regionali sono i nostri”, “Io non me l’aspettavo che il Pd la facesse così zozza”.

La cosa che considerano “zozza” non è la riforma in sé, ma l’impianto ideologico che la sostiene, e – questo è l’aspetto più rilevante – la tendenza antidemocratica che si può leggere in filigrana. Ovvero: le agevolazioni alle scuole paritarie fanno il paio non solo con i poteri eccessivi del preside, ma anche con l’abrogazione dell’articolo 18 e con il ridimensionamento del senato.

Questa è una delle ragioni, probabilmente, per cui questa protesta ha funzionato: non è stata corporativa, né difensiva, né puramente lavorista – ma ha riconquistato alla politica attiva molte persone che non se ne occupavano da anni.

È solo il primo tempo

Dall’altra parte c’è un elemento che chi l’ha raccontata, questa protesta, non ha messo in luce: la consapevolezza storica di cosa si è fatto alla scuola negli ultimi anni. Non è un caso che siano i comitati della Lip – la legge di iniziativa popolare – attivi da un decennio, ad aver fatto da catalizzatore, insieme ai gruppi di docenti che da anni si battono contro il salario al merito o contro i test Invalsi.

Se da una parte va riconosciuto un valore enorme agli insegnanti che hanno tenuto in vita la mobilitazione quest’anno, dall’altra il rischio che tutti paventano è che quest’energia si disperda. Per questo, e c’è un accordo assoluto, servono delle battaglie semplici e efficaci. “È solo il primo tempo”, sintetizzava Stefano Fassina l’altro giorno.

Da molte parti era venuta la proposta di un referendum di abrogazione. Possibile – la nuova formazione di Pippo Civati – aveva messo nero su bianco un quesito stilato da Andrea Pertici sulla chiamata diretta. Anche Maurizio Landini nei giorni passati aveva promesso il suo appoggio.

Ma la perplessità sul referendum proviene da una sensazione comune: questa mobilitazione, nonostante l’enorme impatto avuto fino adesso, non è ancora pronta per lo scontro frontale.

Per questo forse sembra avere più senso promuovere per l’inizio di settembre ancora azioni di “guerriglia”: assemblee nazionali, locali, notti bianche, un nuovo sciopero generale (qui un’ottima ricostruzione di Roberto Ciccarelli) e soprattutto incoraggiare la disobbedienza civile dentro le scuole. Il che vuol dire boicottare, non dare la disponibilità ai comitati di valutazioni della Buona scuola, o anche rifiutare in blocco il bonus – previsto dalla legge – per gli insegnanti migliori…

Se poi fra un anno questo dissenso sarà diffuso, se si saranno riconquistati anche gli studenti e le famiglie – “lo sappiamo, sarà difficile” – il referendum abrogativo della riforma probabilmente sarà la strada migliore: “Vincere a El Alamein serve a prepararsi a combattere a Stalingrado”, chiosava tra il faceto e il serio Giorgio Tassinari, uno storico attivista bolognese.

Per ora è complicato capire come andrà a finire lo scontro.

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