21 luglio 2015 11:23

Santarcangelo di Romagna è un posto dove la sindaca ha 25 anni e il festival di teatro 45. La sindaca si chiama Alice Parma, e mi racconta che quando bussano alla sua stanza in municipio, le chiedono sempre: “Il sindaco dov’è?”, e lei tira fuori da un cassetto la fascia tricolore.

Il festival invece è il punto di riferimento per il teatro italiano da quasi mezzo secolo.

Nato sulla spinta del teatro di ricerca anni settanta (Carmelo Bene, Leo de Berardinis), ha attraversato almeno tre generazioni di artisti, compresa quella della “terza ondata” (da Fanny e Alexander ai Valdoca) celebrata già quindici anni fa (in un bel libro intitolato La nuova scena italiana) perché era riuscita a imporre un contagio tra le varie discipline – arti figurative, danza, cabaret, cinema, televisione, musica. E nel tempo ha anche figliato: non esisterebbero Drodesera, Castiglioncello, il romano Short Theatre, altre decine di festival senza Santarcangelo.

Ma l’importanza di un festival come questo che si definisce “internazionale del teatro in piazza” non è solo quella di confermarsi un centro di gravità per quel folto gruppo di appassionati e addetti ai lavori che ogni anno a metà luglio vengono in pellegrinaggio qui a vedere le anteprime degli spettacoli che – con tutta probabilità – saranno tra le cose più interessanti della stagione a venire, o conoscere piccole compagnie europee di cui sentono parlare da anni, il regista iraniano, il gruppo tedesco. Il contributo irrinunciabile di Santarcangelo è la relazione sempre più consapevole che il teatro che va in scena in questo festival ha con il mondo, con le questioni sociali, con il discorso politico, con “la piazza”.

Questo rapporto che può sembrare scontato oggi non lo è. Uno spettacolo in Italia raramente entra nel dibattito pubblico e quando accade è perché qualcosa ha destato scandalo: blasfemia, violenza, vilipendio. Dall’altra parte i cartelloni si riempiono di intrattenimento e teatro civile, eliminando la possibilità di uno spazio di mezzo; oppure si dichiarano “specchio del presente”, tagliando il legame con la storia del teatro e dei luoghi dove vivono.

Che questo sia il contesto (infelice, o infelicemente neutrale) lo devono aver tenuto ben presente, Silvia Bottiroli – la direttrice di Santarcangelo – e il suo staff, al momento di ideare quest’edizione; e invece di eluderla o di ridurla a un tema di riflessione tra i molti, hanno pensato di esplorarla fino in fondo, questa crisi – allestendo non solo un programma pieno di dilemmi, aporie, contraddizioni, spigoli, rovesciamenti; ma offrendo questa interrogazione come necessario accompagnamento alla fruizione degli spettacoli.

In Genet a Tangeri gli spettatori erano stati invitati ad assistere a uno spettacolo in un mattatoio. Lo scandalo non era il cavallo ucciso, ma il suo entrare in scena

Il risultato sono anche tre bellissime pubblicazioni che fanno parte di questo festival quanto le performance: si intitolano How to build a manifesto for a the future of a festival (01, 02, 03), sono una lettura per nulla d’occasione, e si chiedono insieme a noi cosa vogliamo oggi – e domani – da un festival di teatro.

Ci sono estratti fondamentali, come Lo spettatore emancipato di Jacques Rancière, secondo cui oggi una riflessione sul ruolo politico del teatro non è a carico degli artisti (come hanno proposto Bertolt Brecht da una parte e Antonin Artaud dall’altra, e i loro vari epigoni), ma soprattutto del pubblico.

Lo spettacolo Greta Garbo di Masbedo, il 19 luglio 2015. (Ilaria Scarpa)

Interrogativi e complicità

Oppure prendiamo, per capire cos’è Santarcangelo, il saggio di Silvia Bottiroli stessa per esempio, Che cosa può fare l’arte, in cui ragiona su vari, anche noti, spettacoli teatrali che hanno destato scandalo, finendo per essere sospesi o cancellati.

Il primo, Genet a Tangeri dei Magazzini Criminali, fu rappresentato proprio in un festival di Santarcangelo nel 1985 ed è il famoso caso del cavallo ucciso in scena: la critica massacrò artisti e organizzazione. In realtà, ricorda Bottiroli, gli spettatori erano stati semplicemente invitati ad assistere a uno spettacolo in un mattatoio. Si trovavano così a essere testimoni di “una scena della realtà che era tollerata pacificamente a patto della sua invisibilità”. Lo scandalo non era il cavallo ucciso, ma il suo entrare in scena.

Gli altri esempi più recenti, Sul concetto di volto nel Figlio di Dio della Raffaello Sanzio (con un gruppo di bambini che lanciava granate su una raffigurazione sacra), Exhibit B di Brett Bailey (in cui degli attori neri erano messi in uno zoo), Golghota picnic di Rodrigo Garcia (in cui Gesù è rappresentato come una specie di drop-out), Wanna Play? di Dries Verhoeven (in cui si chiede al pubblico di soddisfare i desideri del regista), mostrano che spesso le discussioni sulla libertà di espressione – quelle generate per esempio dalla strage di Charlie Hebdo – ne celano altre più interessanti e radicali:

Quali fatti? Quali volti della realtà in cui accettiamo di vivere non vogliamo vedere? Qual è il rimosso delle nostre società? Cosa chiediamo all’arte di fare, e che cosa le permettiamo di fare di fronte a queste realtà?

Le quasi cento compagnie presenti a Santarcangelo rimodulavano tutte, di fatto, questo tipo di interrogativi.

Era così, molto esplicitamente, per l’evento di apertura, Breivik’s statement di Milo Rau, dove l’attrice turco-tedesca Sascha Özlem Soydan ha ridato voce al discorso che l’attentatore di Utøya ha tenuto davanti alla corte di Oslo. Lo spettacolo non si limitava all’aspetto perturbante, ma aveva un secondo tempo: un dibattito politico con i giornalisti Marcello Veneziani, Wlodek Goldkorn, Gigi Riva a discutere e poi a loro volta coinvolgere il pubblico.

Per noi che siamo così abituati a riflettere su temi come il multiculturalismo, l’immigrazione, il futuro dell’Europa, questo rito collettivo serviva a scalfire quel distacco con cui spesso ci schieriamo sull’una o l’altra posizione – “L’ideologia non è astratta, ma ci chiama in causa come individui”, dichiara Rau citando Althusser.

Il nuovo tempo perduto

Anche l’operazione della compagnia tedesca Ligna con il Grande rifiuto era analoga. Gli spettatori partecipano a una sorta di viaggio nel tempo: entrando in una serie di stanze e guidati dalle voci in cuffia di audioguide, ritornano all’estate del 1914. L’Internazionale socialista è in allarme, ha convocato un congresso a Vienna da cui vuol far partire uno sciopero generale europeo, per scongiurare la guerra.

Nella realtà quel congresso non si svolse, il leader del socialismo Jean Jaurès fu ucciso da un nazionalista; e oggi tocca agli spettatori provare a immaginare come sarebbe stato se le cose fossero andate diversamente.

Ogni ‘questione privata’ è anche la ricerca dell’anima dei luoghi in cui viviamo

Azdor, il 12 luglio 2015. (Ilaria Scarpa)

Altrettanto problematici, spiazzanti, sorprendenti, spesso in equilibrio instabile su un filo di complicità con il pubblico sempre pronto a spezzarsi per eccesso di tensione, sono i lavori di Markus Öhrn, regista svedese che ha realizzato per il festival Azdora, un progetto strampalatissimo. Le “azdore” sono le padrone di casa romagnole; con alcune di loro, in una lunga residenza a Santarcangelo, ha formato una specie di collettivo dark con cui inscenare riti distruttivi. Immaginatevi donne di 70 anni in pensione, con la faccia truccata da Kiss e il vestito a fiori, che tatuano veramente sul corpo di uno spettatore un marchio della loro nuova “setta”.

Öhrn è anche il regista di un film di 49 ore e mezza – trasmesso in loop al supercinema nei giornali del festival – che altro non è che il montaggio di tutte le scene censurate dalla commissione di stato svedese dal 1934 fino agli anni duemila: violenza, porno di serie b, ma anche – non si sa perché – tante scazzottate; minuti e minuti con Bud Spencer e Terence Hill, o Giuliano Gemma. Del resto quanto si può indagare l’anima di un paese da ciò che censura?

Sempre partendo dalla censura, ma anche da “ciò che non si può dire ma si sente”, è stato creato Timeloss del regista iraniano Amir Reza Koohestani: una donna e un uomo dell’Iran di oggi – ma anche una sorta di Orfeo ed Euridice – si confrontano, sedendo vicino senza guardarsi, sul significato della loro separazione, inscenando insieme una straziante meditazione sul tempo e sul rapporto con il passato oscuro del loro paese.

Va letto anche il piccolo saggio contenuto nei materiali del festival scritto da Koohestani – su cosa vuol dire fare arte in un regime: è di una potenza sorprendente.

Ogni “questione privata” è anche la ricerca dell’anima dei luoghi in cui viviamo: questo è quello che dice Koohestani e anche quello che suggerisce sempre l’opera dei Muta Imago (Riccardo Fazi e Claudia Sorace, romani), che qui a Santarcangelo hanno portato un altro dei loro lavori tassonomici e sentimentali.

Riccardo Fazi ritrova mesi fa un’audiocassetta che gli aveva registrato una ragazza di cui si era innamorato un’estate del 1994 a Rimini. Riascolta le hit estive sulla cassetta ma alla fine del nastro per la prima volta sente la voce di lei che gli urla: “Ciao Roma, ci vediamo a Santarcangelo”. E così dopo vent’anni decide di mettersi alla ricerca di questa ragazza di cui ha dimenticato il nome e ricorda a malapena il volto. Ciò che viene fuori sono centinaia di ore di registrazioni audio – che gli spettatori possono ascoltare: interviste, richieste di informazione, canzoni degli anni ottanta – che testimoniano questa ricerca del tempo perduto. L’ha ritrovata?

MDLSX dei Motus, 14 luglio 2015. (Ilaria Scarpa)

Il personale insomma è politico: questo ce lo chiarisce una volta per tutte anche lo spettacolo meraviglioso dei Motus, MDLSX.

Silvia Calderoni in scena da sola per un’ora e venti compie un rito miracoloso: ci racconta con una sincerità struggente (mostrandoci filmini domestici della sua infanzia, denudandosi ogni volta in modo più esposto: seducente, sciamanico, infantile, animalesco) cos’è la condizione di intersessualità. Non in un senso astratto, ma partendo da sé: da quell’Italia anni ottanta in cui si ascoltavano gli Smiths, ci si vestiva con le felpe della O’Neill e le tute in acetato, e si immaginava una ribellione verso la propria famiglia medioborghese opponendogli l’unica arma di cui non si può essere spossessati, il proprio corpo, incerto su cosa diventare.

MDLSX è un’esperienza imperdibile: uno spettacolo che cita i queer studies, la letteratura di genere, ma che va al di là di tutto questo. Silvia Calderoni con il suo corpo androgino che in scena diventa ipnotico e postumano, riesce a farci entrare in una dimensione realmente mitica, e al tempo stesso a rovesciare completamente le nostre categorie: usciti, sconvolti e grati da MDLSX, concepiamo in un modo per forza diverso cosa siano la dimensione maschile e quella femminile, e insieme ci ricordiamo che fare politica non può mai prescindere da una presa in carica della nostra voce e dell’esperienza dei nostri sensi.

Del resto, il modo in cui stiamo al mondo e lo sentiamo, e conosciamo gli altri, è sempre il nostro fragile corpo.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it