04 gennaio 2016 13:23

Con il suo quarto film, Quo vado?, Checco Zalone ha conquistato praticamente tutti, anche i critici che volevano essere sicuri che fosse abbastanza à la page per sdoganarlo, quelli che ancora non avevano scritto un editoriale sulla commedia all’italiana che rinasce, o i ministri della cultura che non avevano ancora twittato la banalità del film che salva le sorti del cinema italiano.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Quello che ci si aspettava si è realizzato: Quo vado?, proiettato in migliaia di sale, fa soldi in modo prodigioso e supererà probabilmente anche Avatar come maggiore incasso di sempre: da qui a qualche settimana probabilmente l’avrà visto al cinema un italiano su dieci. Perciò parlare di Zalone e del suo film vuol dire anche chiedersi cos’è che lo rende un tale successo.

Dopo Sole a catinelle (2013) è il secondo film che parla di lavoro. In Sole a catinelle Zalone era un rappresentante che si ritrovava senza clienti per la crisi, sposato con un’operaia a rischio licenziamento; in Quo vado? è uno sfaccendato lavoratore statale che non si arrende al dimagrimento della riforma amministrativa, e pur di difendere con le unghie e coi denti il posto fisso e non patteggiare la buonuscita, accetta di farsi spedire nei posti più sperduti d’Italia e d’Europa; fino in Norvegia dove si innamora di una ricercatrice brillantissima, il cui futuro lavorativo è chiaramente incerto. Partite iva e impiego dipendente: la fine del mondo del lavoro novecentesco è la stessa.

Se c’è qualcosa che Zalone e Gennaro Nunziante (regista, cosceneggiatore e sodale di Checco dai tempi di Telenorba) hanno capito è che se la comicità è un linguaggio che funziona quando si riferisce al tempo presente e se viene condiviso dal maggior numero di persone possibile, allora il riferimento più semplice dev’essere alla condizione più comune oggi in Italia: quella del ceto medio impoverito.

Il tono della satira di Zalone non può mai essere feroce perché anche il potere è debole, arreso, avvinghiato a privilegi sempre più miseri

Zalone tocca il nervo scoperto della diffusa sensazione di perdita della sicurezza economica: il sogno berlusconiano che aveva prolungato oltre il tempo massimo la proiezione di benessere della prima repubblica è svanito, e insieme è evaporata anche la distinzione tra destra e sinistra, alto e basso, ricchi e poveri. Il tono della satira di Zalone non può mai essere feroce perché anche il potere è debole, arreso, avvinghiato a privilegi sempre più miseri, pensionato, moribondo. La stessa aggressività tamarra dei suoi esordi e dei precedenti film è molto smussata.

Per questo Zalone non è l’erede della commedia all’italiana, perché il suo codice è esplicitamente postmoderno. Da un punto di vista stilistico cita, copia, ammicca, elabora, parodieggia, fa il verso, tratta il pubblico come un complice, porta a sospendere in continuazione la credulità; da un punto di vista formale rifiuta programmaticamente la terza dimensione, la carnalità, il tragico.

Fin dalla prima scena, Checco Zalone è più un fumetto che un essere umano: è un italiano in Africa che viene catturato da una tribù di dogon che somigliano più ai personaggi delle vignette sui cannibali che alla popolazione del Mali. Per non finire nel pentolone, deve convincere il capo tribù della sua innocenza e per questo raccontargli la sua storia. Ci riuscirà.

La narrazione è quindi una metanarrazione, sul modello perfetto di Prendi i soldi e scappa (anche il film recente di Capatonda e moltissime commedie degli ultimi anni hanno un meccanismo simile), e il protagonista di Quo vado? è uno Zelig alla meridionale. Mimetico per una scelta diventata vocazione: la funzionaria renziana che vorrebbe strapparlo al posto fisso deve arrendersi alla sua capacità adattiva, che lo porta a cavarsela nella val di Susa tra gli scontri per la Tav, nell’isola di Lampedusa assiedata dai migranti e alla fine anche tra i ghiacciai della Norvegia artica.

Ma, come accadeva anche in Sole a catinelle, il suo conformismo quasi patologico diventerà invece – dopo vari tentativi goffi e fallimentari – una vera formazione sul modello gesuitico (se fai qualcosa finirai per essere qualcosa): Zalone da egoista, maschilista, mammone, strafottente, alla fine del film è diventato un padre e compagno modello, filantropo e politicamente impegnato.

Il serio rischio che corre è di trasformare la sua bonarietà in un’indulgenza plenaria

Dall’altra parte invece il nuovo che avanza ha stampato in bocca il sorriso falso dell’innovazione dietro il quale cela la dismissione (e non la riforma) dell’apparato statale – questo sottotesto è la critica più corrosiva che mi viene in mente portata all’anima e non alla facies del renzismo da parte di un comico. Ed è efficace e acuminata anche per merito della bravura di Sonia Bergamasco e Ninni Bruschetta che intepretano i politici ministeriali convertiti al ridicolo credo renziano.

Se Zalone è bravo a fare satira sociale dissimulando, essendo più un cartoon che un personaggio di carne e sangue (vedi la scena dove arriva fra le nevi del Polo nord e sta in camicia a giacca), gli riesce meno di toccare le altre corde della comicità.

Nei film di Zalone l’amore e il sesso sono una roba da scuole elementari – le gag in cui per esempio masturba degli animali hanno una volgarità infantile e non adolescenziale – e la morte, al contrario dalla commedia all’italiana, non esiste.

È questo forse il limite strutturale di un film che da un punto di vista tecnico possiede tutto ciò che gli si richiede: la fotografia pastellata di Vittorio Omodei Zerini, il montaggio di Pietro Morana con un ritmo da sketch che però riesce a essere funzionale alla narrazione, l’uso non macchiettistico dei caratteristi (da Lino Banfi a Gianni D’Addario), e anche la performance attoriale di Luca Medici/Zalone migliorata di molto.

Se negli altri film non erano poche le scene in cui era poco più di un talentuosissimo cabarettista prestato al cinema, in Quo vado? sembra aver inglobato la maschera del cozzalone (e il debito nei confronti di Emilio Solfrizzi e Antonio Stornaiolo, Toti e Tata di Telenorba, di cui Nunziante era autore); e invece di esibirla nelle uscite sguaiate, nell’abbigliamento implausibile, riesce a plasmarla nel personaggio. Ossia: funzionano molto di più le sue espressioni da parvenu che le gag tipo quella del pizzetto decolorato.

Ma il guizzo di coraggio che gli si richiede – forte di questo successo senza ombre – è più da autore che da attore: di confrontarsi con un mondo che non sia solo bidimensionale. Altrimenti il serio rischio che corre è di trasformare la sua bonarietà in un’indulgenza plenaria. Una forma di rassicurazione per grandi e piccini di famiglie impaurite che possono permettersi di andare al cinema tutti insieme solo a Natale, una forma di rassicurazione un po’ facile. Che forse però è proprio il motivo per cui Quo vado? sta facendo soldi a palate.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it