25 giugno 2016 16:55

La prima generazione che ha cominciato a sentirsi europea non è quella che chiamiamo approssimativamente generazione Erasmus, che andava a fare le vacanze studio a Londra o progettava un Interrail tra Parigi, Bruxelles e Amsterdam. Le figure simboliche della nascita dell’Europa, tra gli anni novanta e i duemila – fuori dalla solennità dei trattati economici e politici – sono i ragazzi che partirono per fare i volontari pacifisti nella guerra nell’ex Jugoslavia, distribuendo aiuti alle popolazioni assediate, o quelli che fecero di tutto per accogliere le prime grandi ondate migratorie dall’est Europa dopo la caduta dei regimi comunisti, o quelli che si sobbarcavano trenta ore di pullman per arrivare a Russell square a Londra e manifestare contro l’intervento armato in Iraq.

L’Europa non è nata a Schengen, a Maastricht e nemmeno a Lisbona, ma a Srebrenica nel 1995 con l’ondata di rabbia che seguì in ogni paese quando si scoprirono quei massacri, o a Genova nel 2001 – quando per la prima volta temi come l’ecologia, un nuovo welfare, i diritti civili, il pacifismo e il contrasto a un capitalismo estrattivo furono posti al centro dell’agenda politica.

È chiaro che quell’idea di Europa, che negli anni novanta era stata vissuta e pensata da quello che allora si definiva scivolosamente movimento no global – che invece era esplicitamente un movimento internazionalista che si opponeva alla finanziarizzazione dell’economia, alla chiusura degli spazi di partecipazione politica, al potere crescente delle corporation e alla conseguente perdita di diritti sociali – non è stato purtroppo il collante ideale dei cinquecento milioni di persone che oggi sono gli abitanti dell’Unione europea.

Dal G8 di Genova in poi classi politiche inadeguate hanno lucrato sul risentimento, immaginando che l’Europa fosse un’isola dei privilegi e delle disuguaglianze, hanno imposto ai paesi economicamente più deboli come la Grecia o il Portogallo una forma di colonialismo interno (un po’ come avvenne al sud Italia dopo l’unificazione nazionale) e hanno finito per far diventare l’unione politica una fortezza protetta dalla polizia di Frontex e il Mediterraneo il luogo di uno sterminio tanto permanente da non essere più nemmeno avvertito.

Ora è evidente che l’unica possibilità che un’Europa resusciti non è quindi nello stillicidio di contrattazioni che seguiremo tra le istituzioni europee e quelle inglesi, o nelle non più credibili dichiarazioni di responsabilità che i governanti opporranno alle intemerate razziste dei Le Pen e dei Wilders. Un ideale europeo dovrebbe rinascere a Lesbo o a Lampedusa, e potrà farlo se dei ragazzi inglesi, o lituani o croati o ciprioti, vorranno riprendersi un protagonismo politico che oggi è quasi totalmente assente.

Quando a scuola si spiega quella sequenza imprevedibile e folle di eventi che condussero alla prima guerra mondiale, l’assurda estate del 1914, c’è sempre una piccola storia nella Storia che va raccontata come controesempio all’idea che sia un fatalismo tragico a decidere dei destini dei popoli. Nelle giornate concitate di fine luglio, dopo la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, a Parigi il più carismatico dei politici del tempo, il deputato socialista Jean Jaurès, cerca ancora di organizzare febbrilmente un grande sciopero generale europeo preventivo che scongiuri il conflitto attraverso un ricorso all’arbitrato internazionale.

Mentre discute ogni giorno al ministero degli affari esteri, dalle pagine dell’Humanité scrive una serie di editoriali che inneggiano alla pace, cercando di educare a quelle idee antinazionaliste e anticolonialiste che da anni promuove nell’Internazionale socialista. La sera del 31 luglio è, instancabile, a cena al Café du Croissant con Georges Weill, deputato tedesco anche lui socialista, anti-interventista e cosmopolita. Fermiamoci un secondo in più lì, al momento della cena, prima che all’uscita del ristorante Jaurès venga ucciso con un colpo di pistola da uno studente nazionalista, Raoul Villain (sono settimane che la stampa di destra come l’Action Française descrive Jaurès come un traditore della patria).

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L’anno scorso la compagnia teatrale tedesca Ligna ha messo in scena uno spettacolo intitolato Il grande rifiuto in cui sceglieva di riportare gli spettatori proprio a quei giorni del luglio 1914 con un congresso dell’Internazionale socialista alle porte, Jaurès ancora vivo e la pace ancora possibile; e poi chiedeva al pubblico di immaginare quel che sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente. Chi assisteva – o meglio chi partecipava – a questo spettacolo, provava un intenso stato d’animo: la consapevolezza di poter sempre decidere, di essere chiamato in ogni caso a fare politica, la vertigine di essere tra coloro che possono riuscire a cambiare in bene il corso degli accadimenti opponendosi a un marcio spirito del tempo.

Oggi questa coscienza è ancora la speranza lucida di un rinnovato socialismo internazionale sull’orma di Jaurès, nel desiderio che i Nigel Farage o i Matteo Salvini siano ricordati in futuro per aver condiviso con un Mussolini o con un Milosevic solo una maschera ridicola e una piccola retorica avariata.

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