05 febbraio 2017 12:35

Austerlitz di Sergei Loznitsja non è né un film, né un documentario. È un oggetto che si avvicina più alla videoarte. Novantatré minuti di camere fisse che riprendono, in bianco e nero e solo con audio ambientale, i turisti che visitano, in un pomeriggio d’estate, il campo di sterminio nazista di Sachsenhausen, vicino a Berlino. Non c’è una spiegazione, non c’è un commento: solo gente normale, vestita in modo normale che si trascina pigramente dentro a un luogo di orrore e di memoria come se fosse in un museo come un altro. All’inizio non si capisce neanche bene dove ci troviamo: c’è un viale alberato e tanta gente in ciabatte, calzoncini e maglietta che si dirige verso qualcosa. Poi capiamo che quel qualcosa è il cancello di ferro battuto con la scritta Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. Un cancello attraverso cui, una settantina d’anni fa, persone molto simili, uomini, donne e bambini, entravano per non uscirne più.

Le immagini che vediamo non hanno una particolare omogeneità: a volte sembrano riprese da videocamere di sorveglianza, altre volte un freddo film d’architettura. Afferriamo qualche parola, il gracchiare di un’audioguida o il commento di un visitatore e magari ci capita d’interrogarci sulla vita di qualche “personaggio”. Per esempio chi è la ragazza che si fa fare una foto davanti alla scritta di ferro battuto? Il ragazzo che le scatta la foto varie volte in cerca dell’inquadratura migliore è il suo fidanzato? Suo fratello? Un amico? Uno sconosciuto a cui lei ha chiesto per favore di farle una foto? Ma soprattutto, visto che ci dà le spalle, ci chiediamo che faccia possa fare.

Uno specchio nero
Come ci si atteggia quando ci facciamo scattare una foto ricordo davanti al simbolo del più grande delitto mai commesso contro l’umanità? Si sorride? Si assume un’aria contrita? Si guarda dentro l’obiettivo? Si guarda in terra? Non lo sapremo mai perché anche noi spettatori, come i turisti e come chi, tanti anni prima, fu deportato lì, siamo costretti a varcare quel cancello.

Non è corretto dire che Austerlitz sia un film girato “in soggettiva”, di fatto però la videocamera diventa il nostro occhio, un po’ come il “cineocchio” di Dziga Verov. Solo che qui non c’è il meraviglioso mondo della rivoluzione comunista su cui aprire gli occhi, come volevano i cineasti d’avanguardia russi. E non c’è neanche il violento uso della soggettiva del Figlio di Saul, di László Nemes, un altro film sull’olocausto in cui vediamo molte delle azioni più drammatiche attraverso lo sguardo del protagonista.

È come la discesa in un inferno fatto di banalità, di brutti sandali, di carrozzine, di T-shirt con scritte ridicole

Qui non c’è nulla di drammatico a cui assistere: siamo solo costretti a guardare, a incolonnarci insieme ai turisti fin dentro quella che ancora sembra solo una fabbrica. Loznitsja non giudica nulla: vuole solo che noi guardiamo. E pur nella sua staticità e nella sua assoluta assenza di narrazione, il film è un buco nero che assorbe tutta la nostra attenzione. È impossibile distogliere lo sguardo e si entra sempre più dentro, ripresa dopo ripresa, fino alle camere della morte, fino alla morgue.

È come la discesa in un inferno fatto di banalità, di brutti sandali, di carrozzine, di T-shirt con scritte ridicole. A chi può venire in mente di visitare un lager nazista con addosso una maglietta con su scritto Cool story, bro (Bella storia, fratello)? Be’ può capitare a tutti… è la prima maglietta che peschiamo dal cassetto. Non c’è neanche più “banalità del male” ma banalità e basta.

Austerlitz più che un’opera sulla memoria dell’olocausto è una riflessione sul guardare. Per 93 minuti guardiamo solo altra gente che guarda. In greco antico oida è il perfetto di orao, il verbo “vedere”. E oida significa “Io so”. Perché se ho visto, so. E la conoscenza, per gli antichi, significava possesso. L’atto del vedere era un atto di presa quasi fisica sul mondo circostante.

L’arte figurativa, essendo legata all’atto del guardare, è una presa di possesso. Dai graffiti degli uomini primitivi fino al Grande vetro di Marcel Duchamp l’arte si è basata sulla forza dello sguardo, sulla sua capacità di penetrare, di possedere, anche di stuprare, come nel caso della Sposa messa a nudo di Duchamp e di tanta arte surrealista.

Guardare è possedere dunque, ma anche testimoniare. Esserci. In ogni crocifissione rinascimentale, da quelle italiane a quelle tedesche o fiamminghe, c’è sempre un personaggio che si volta verso lo spettatore e lo invita, appunto, a guardare. A farsi testimone della morte di Cristo. In Austerlitz succede invece qualcosa di strano: il nostro sguardo non sembra penetrare nessuna realtà e non sembra trattenere nulla. È come anestetizzato, impotente.

Cosa guardiamo, dunque, quando guardiamo Austerlitz? Di quale verità veniamo in possesso? Di cosa siamo testimoni? Forse di nulla. Austerlitz è uno specchio nero che assorbe il nostro sguardo senza restituirci niente. Il vero messaggio del lavoro di Loznitsja è che non siamo più capaci di guardare. E quindi di ricordare. Eppure abbiamo occhi onnipresenti e iperstimolati, occhi che schizzano in una frazione di secondo dalla pornografia alle previsioni del tempo, da Candy Crush a un articolo di giornale. Ma a differenza degli antichi greci per noi “aver visto” non significa più “sapere”.

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