21 marzo 2024 17:32

Todd Haynes con May december – in concorso all’ultimo festival di Cannes – si conferma cineasta di grande profondità, capace di ammaliare e intrigare lo spettatore con questo nuovo ritratto di donna, a dir poco fuori dai canoni, regalandoci forse il suo personaggio femminile più imprendibile. Contrapponendolo a un altro personaggio femminile antitetico, in una sfida tra due grandi attrici: Julianne Moore, da sempre musa ispiratrice del cinema di Haynes, e Natalie Portman, qui anche in veste di coproduttrice, e alla sua prima collaborazione con il regista.

Il tema d’indagine è costituito dai meandri della psiche umana prima ancora di quelli amorosi, dalla soglia di quella che chiamiamo morale. Haynes aggiunge un nuovo e fondamentale tassello alla sua indagine sul disagio interiore contemporaneo, che coincide sempre con la destrutturazione dell’identità dell’essere umano moderno, inscindibile da una riflessione sul cinema, inteso come specchio dai molteplici riflessi, o frammenti, di una realtà non meno destrutturata.

“Mio fratello Scott è un ammiraglio della marina e dice che ‘l’ordine ha la sua ricompensa in sé’”, dice Gracie Atherton-Yoo (Julianne Moore). E tuttavia è “la complessità, sono le zone morali grigie quelle più interessanti”, osserva invece Elizabeth Berry (Nathalie Portman). Tra la prima frase, detta all’inizio, e la seconda, che arriva quasi a metà film, lo spettatore trova già sintetizzate le due opposizioni che attraversano l’opera, incarnate dalle due protagoniste.

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Ispirato a una vicenda reale, il film racconta la storia di Gracie Atherton-Yoo. Quando aveva trentasei anni la donna si era innamorata di un tredicenne di origini coreane, Joe Yoo (Charles Melton). Lo aveva conosciuto nel negozio di animali dove il ragazzo lavorava. Con lui aveva avuto due gemelli, Mary e Charlie, che ora stanno per diplomarsi e lasciare casa. Dopo essere stata arrestata e incarcerata per quella relazione, Gracie è riuscita a tornare a una vita apparentemente normale, costruendo malgrado tutto una rete di amicizie e restando sempre a Savannah, in Georgia. Un’altra donna è presente fin dalle sequenze d’apertura: Elizabeth Berry, un’attrice che vuole impersonare al meglio Gracie in un film tratto dalla sua storia.

In realtà la sua presenza si configura come una vera e propria indagine – interroga i vicini, il figlio del primo matrimonio, l’ex marito, l’avvocato di Gracie – e pian piano l’apparente rispetto iniziale lascia il posto, nel suo sguardo sulla vicenda, a una sorta di intento malevolo, se non di disprezzo, come rivelano in particolare le sue conversazioni telefoniche con il compagno o la produzione.

La sua non è un’osservazione empatica, o quantomeno neutra: Gracie è giudicata, e male. Una buona dose di cinismo e spregiudicatezza emergono a poco a poco nei comportamenti di Elizabeth, che fa di tutto per sembrare amichevole e guadagnarsi la fiducia.

La grande differenza d’età tra Gracie e Joe (il titolo si riferisce proprio a un’espressione di uso comune che la sottolinea) è evidenziata di continuo da Elizabeth con le sue domande, che mettono a disagio Joe e lo spingono a interrogarsi. Elizabeth lentamente destabilizza i precari equilibri familiari. “Questa non è una storia. È la mia vita, cazzo!”, urlerà esasperato Joe a Elizabeth, che gioca con lui quasi come il gatto con il topo.

A cena il figlio abbandona quasi subito la tavola. I gemelli sembrano i fratelli minori di un padre da consolare. Come nella scena in cui Joe guarda il cielo e le cime degli alberi da sdraiato, quindi dal basso ma allo stesso tempo dall’alto, perché scopriamo presto che è sdraiato sul tetto: scena paradigmatica che ci dice che qui tutto è sottosopra, rovesciato, allo specchio.

Solo Gracie sembra sempre netta e risoluta. Il suo candore e la sua ingenuità si scontrano con le ambizioni di un’attrice che vede l’occasione per emergere dalle serie tv – “Vorrei che la serie tv non l’avesse vista nessuno”, dice – e dalla pubblicità.

C’è un momento di grande forza cinematografica. Elizabeth partecipa a un incontro organizzato a scuola con gli studenti sui problemi della recitazione. La prima domanda è sulle scene di sesso. La risposta lascia tutti senza parole, e il volto dell’insegnante è costernato: “Siete praticamente nudi e vi strusciate l’uno sull’altra. Sudati. L’uno sull’altra. Per ore. E a un certo punto perdi il filo, nel senso… Sto facendo finta di sentire piacere o sto facendo finta di non provare piacere? E la troupe, che è sempre composta perlopiù da uomini, ti guarda e li senti che trattengono il fiato”. Aggiunge poi quasi sussurrando: “Cercano di nascondere quando deglutiscono. E alla fine ti lasci andare al ritmo”. Il vero e il falso si annullano, fino a diventare interscambiabili. Questa conversazione di teoria cinematografica ne anticipa il suo svolgimento concreto.

Il metacinema di Haynes è qui inteso come interrogazione voyeuristica della realtà, che ha il suo assunto in La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock ma anche, all’opposto, nell’interrogazione del cinema come sguardo etico, che ha invece il suo assunto nell’opera di Roberto Rossellini. Si prolunga poi con i riferimenti dichiarati a Bergman (a Persona, per esempio), ai film disturbati di Douglas Sirk, fino a Quarto potere di Orson Welles: la Rosebud imprendibile è qui Gracie e al posto di un giornalista a fare domande c’è un’attrice. E trova infine la sua esplicitazione nella scelta delle musiche di Michel Legrand – rielaborate da Marcelo Zarvos – per Messaggero d’amore di Joseph Losey.

È anche uno scontro tra cinema classico e nuovo, tra visione e unicità del cinema e serialità televisiva, come nella scena del fondotinta, in cui le due donne sono di fronte: due età della vita e del cinema allo specchio. La fusione di due età del cinema con l’antropologia umana postmoderna, femminile nella fattispecie. L’una dalla pelle bianca, quasi eterea come un fantasma, vestita peraltro di bianco, l’altra abbronzata, tonica. L’una porta con sé qualcosa di fantomatico, l’altra è forse ovvia. Perché la seconda porta con sé un mistero molto difficile da chiarire. Due antinomie, fin nella carne.

Il finale mischia di nuovo le carte. Il mistero Gracie è imprendibile come la realtà: “Credo di aver perso la nozione di dove sia il limite. E poi chi è che stabilisce questi limiti?”, dice la donna nel dare l’addio a Elisabeth. Ed è accentuato dal fatto che è chiaro che sono le convenzioni sociali a destabilizzare: il veleno viene dall’esterno, innanzitutto da Elizabeth, che sarà messa in crisi. Al contrario del cinema di Haynes.

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