12 marzo 2015 15:28

Avrò avuto dieci anni quando ho scoperto la fotografia. A scuola la maestra ci parlava della seconda guerra mondiale e delle immani distruzioni causate dal devastante conflitto, tra cui la tragedia dell’Olocausto. La mia innocenza di bambino mi impediva di comprendere appieno queste parole che tuttavia continuavano a turbarmi.

Alla prima occasione raccontai a mio padre di questa esperienza e lo interrogai sul significato di Olocausto. Nel tentativo di rendere comprensibile a un bambino l’enormità che sarebbe sfuggita perfino a un adulto, mi mostrò ciò che cambiò per sempre la mia percezione del mondo.

Si trattava di una fotografia in bianco e nero di una fossa comune in un campo di concentramento nazista (Bergen-Belsen).

Una fossa comune nel campo di concentramento di Bergen-Belsen in Germania, il 15 aprile 1945. (Keystone/Getty Images)

La vista di quella pila disordinata di centinaia di corpi nudi, scarnificati e privi di vita, rappresenta ancora oggi per me l’evento inaugurale attraverso cui attribuisco significato alle cose importanti, e che definisce la considerazione che ho della vita e della morte, il senso del tragico, l’obbligo dell’umanità alla memoria.

Non mi fu subito chiaro, ma in realtà furono questa e altre precoci esperienze di conoscenza del mondo attraverso la fotografia a guidare il mio destino fino a farmi scegliere, in età adulta, il mestiere di fotogiornalista.

Dopo trentaquattro anni di professione e di passione per questo linguaggio, mi trovo oggi a prendere “carta e penna” spinto dall’urgenza di alcune riflessioni stimolate dalla lettura di un interessante e provocatorio articolo di Christian Caujolle pubblicato sul sito di Internazionale la settimana scorsa.

Il motivo della critica e dell’analisi di Caujolle è da cercarsi nella decisione della fondazione World press photo di ritirare il primo premio nella categoria contemporary issues assegnato al fotografo Giovanni Troilo per un reportage sulla cittadina belga di Charleroi, dal titolo The dark heart of Europe, il cuore nero dell’Europa.

La controversia si è aperta con le critiche mosse dal sindaco di Charleroi, che ha accusato Troilo di violazione del codice etico dei giornalisti in quanto gran parte delle fotografie premiate risultano essere il frutto di una ricostruzione fantasiosa e fuorviante della realtà. Tali fotografie danneggerebbero l’immagine della cittadina da lui governata, soprattutto perché suggellate dall’autorevolezza di un premio giornalistico.

Alla lettera inviata dal sindaco di Charleroi al World press photo sono seguite le indagini svolte dalla giuria e dalla fondazione. L’indignazione espressa da numerosi rappresentanti della professione in tutto il mondo, e le ricerche di alcuni fotogiornalisti locali, hanno condotto infine alla comprovata falsità di una didascalia.

Mio cugino ha accettato di farsi ritrarre mentre faceva sesso con una ragazza nell’auto di lei. Per loro non era strano. Ci sono parcheggi noti per essere luoghi in cui le coppie hanno rapporti sessuali. E ci sono anche uomini e donne soli che guardano anonimamente attraverso i finestrini nebbiosi delle auto. “La vergogna è morta”, ha detto qualcuno a Charleroi. (Giovanni Troilo, Luzphoto)

Di qui la squalifica per violazione delle norme del concorso, basate su un puntuale codice deontologico del fotogiornalismo redatto da alcune delle più importanti associazioni della stampa mondiale.

Ciò che mi ha mosso a intraprendere la fatica della scrittura (mi riesce più naturale esprimermi con le immagini) è proprio il testo di Caujolle, soprattutto là dove afferma:

In effetti tutto si basa su un’idea sbagliata del fotogiornalismo, considerato un modello di ‘verità’. A costo di ripeterci, dobbiamo ricordare che, se da un punto di vista deontologico per un giornalista è vietato mentire, la fotografia è incapace di qualunque verità oggettiva. È tutta una questione di scelta di inquadrature, di estetica, di costruzione di briciole di realtà scomposte, ricomposte e messe insieme.

È certamente vero che la fotografia da sempre mostra e conferma la sua natura ambigua di “impronta” del reale, ma nello stesso tempo Caujolle sembra sottovalutare che “il punto di vista deontologico” nel linguaggio giornalistico è tutto.

Come possiamo infatti affermare che la fotografia abbia una relazione con il reale se non dichiarando che essa è un prelievo del reale effettuato da un fotografo che sottoscrive “un patto di onestà” con coloro che vedranno la sua fotografia?

Lo scetticismo che colpisce Caujolle e che gli fa affermare “[…] c’è chi continua pure ad adorare il dio della realtà che appartiene a un tempo ormai finito” sembra poter essere tradotto in: oggi non si può più credere – io non credo – nell’onestà. Esistono solo immagini parziali e la visione soggettiva di chi le produce e di chi le riceve. E credere alle immagini è diventato estremamente fuori moda.

Trovo che queste siano affermazioni pericolose, soprattutto generate da un movimento di pensiero che, già da qualche tempo, relativizza con disinvoltura la storia, i suoi documenti e, soprattutto, punta al depotenziamento di uno dei pochi linguaggi capaci di mantenere ancora una relazione, seppur problematica e complessa, con la realtà.

È quindi un’affermazione politica quella di Caujolle, che si affianca a quei “critici postmoderni della fotografia documentaria” di cui parla Susie Lienfield nel suo bel saggio La luce crudele, là dove denuncia la veemenza iconoclasta di coloro che irridevano ai fotoreporter impegnati nel sociale, dimenticando che la fotografia di reportage è fortemente radicata nel sociale e nel politico.

Come possiamo considerare documenti le immagini? Se non crediamo più al patto con il reale della fotografia documentaria, come possiamo affermare che le foto dei campi di concentramento nazisti arrivate fino a noi non sono solo il reperto che perpetua la memoria dell’orrore dell’Olocausto, ma anche la prova che inchioda gli assassini?

Certo, a quelle fotografie dobbiamo aggiungere le testimonianze di chi è sopravvissuto, dei carnefici, di chi è stato complice e di chi testimone. Solo così il documento acquista la sua pienezza.

Credo che allo sviluppo esponenziale e orizzontale del linguaggio fotografico registrabile oggi si accompagni una crescente esigenza di educazione alla specificità del funzionamento dell’immagine e alla decodificazione del suo status.

Per esempio, a proposito di Abu Ghraib, “senza le fotografie non ci sarebbe stato nessuno scandalo. E questo perché la gente sa – anche dopo quarant’anni di teorie postmoderne e venti di Photoshop – che le fotografie documentano qualcosa che è successo. Le immagini di Abu Ghraib hanno sconvolto l’opinione pubblica e spaventato il governo [statunitense] proprio perché erano fotografie” (Susie Lienfield, La luce crudele).

Prigione di Abu Ghraib. (Dr)

In questo senso, un’altra affermazione di Caujolle mi trova assolutamente concorde: “Per rientrare in una logica giornalistica le immagini avranno bisogno di essere pubblicate con didascalie precise e documentate”. Ma io credo, a differenza di Caujolle, che questo debba essere non solo responsabilità del media che pubblica la fotografia, ma anche di chi è produttore dell’immagine.

Ognuno dovrebbe infatti prendersi le sue responsabilità, anche perché – e lo si dice poco – i media agiscono spesso secondo logiche di rappresentazione e autorappresentazione, che a loro volta dovrebbero essere sottoposte a una maggiore attenzione critica da parte dei produttori di contenuti che sono pubblicati (spesso fortemente rieditati), ma soprattutto da parte dei lettori.

In questo senso, mi dispiace veramente per Troilo, ma il fornire informazioni fuorvianti o difformi dalla realtà non è affatto elemento “formale e ridicolo” ma, viceversa, sostanziale. Proprio per quel patto di onestà tra il fotografo, il mezzo di informazione che pubblica l’immagine e il lettore. Mentire nel giornalismo non è permesso, e una didascalia non è affatto irrilevante in un documento fotografico che ambisce a essere anche giornalistico.

Così posso anche argomentare, senza per questo negare il valore delle fotografie di Troilo, su alcune immagini staged per stessa ammissione del fotografo. La fotografia del cugino che consuma una relazione sessuale in un’auto in un parcheggio di Charleroi – secondo quanto afferma il fotografo nella didascalia – è stata realizzata con il consenso della coppia, quindi ritrae una scena “reale” in cui l’obiettivo ci racconta anche del voyeurismo che pure è sperimentato in quel luogo. Peccato che nella realtà mi sembra altamente improbabile che una coppia consumi relazioni sessuali illuminandosi dentro un’auto con una luce flash. Il flash è lì a tradire l’ingerenza inaccettabile del fotografo nella documentazione dell’evento, concordata pienamente con i soggetti e ottenuta tramite la loro collaborazione.

Così come sembra debole affermare che l’altra fotografia posata della donna in gabbia si giustifichi con la definizione di “ritratto”, stando alle dichiarazioni di Troilo. L’immagine infatti è dichiaratamente debitrice del linguaggio del reportage, perciò la complicità del soggetto, ammessa nel ritratto, in questo contesto invalida lo status di documento della fotografia stessa.

Riguardo invece al World press photo, se questo ha una responsabilità, è quella di redigere e aggiornare con il contributo di tutti – critici e studiosi compresi – le regole che rendono una fotografia credibile agli occhi dei lettori, nonché accompagnare il processo di selezione garantendo che queste norme condivise siano rispettate. E magari – e in parte la fondazione si fa carico di questo – avviare e promuovere su ampia scala, occasioni educative di diffusione dei valori e delle regole che distinguono questo tipo di linguaggio dalle altre forme di fotografia.

Insomma: nel fotogiornalismo la credibilità è tutto ed essa non dipende unicamente dallo status dell’immagine, ma anche da un complesso di pratiche e culture condivise, a cui sono chiamati a partecipare non più solo gli addetti ai lavori.

In questo momento, il mondo del giornalismo così come lo abbiamo conosciuto fino a qualche anno fa si sta trasformando in qualcosa che stentiamo ancora a riconoscere come nuovo, ma che senz’altro sta rompendo le geometrie verticistiche ed esclusive che avevano, e in parte ancora caratterizzano, i cosiddetti mainstream media. Si intravedono dinamiche sempre più apparentemente orizzontali e partecipative, che tendono a ridefinire i rapporti consueti di fruizione e percezione della realtà.

In questa innegabile tensione trasformatrice, noi tutti, e quindi anche il World press photo, dobbiamo interrogarci su che cosa significhi oggi produrre giornalismo, anche visivo, quale funzione il fotogiornalismo è chiamato ad assolvere e in quali forme può essere garantita la sua credibilità.

Lo dobbiamo a chi ci ha preceduto e ha lasciato documenti di ciò che siamo stati. Lo dobbiamo a noi stessi che aspiriamo – fino a prova contraria – a vivere in un mondo che non conosce il timore di essere oppressi e garantisce il diritto a essere informati su ciò che accade vicino o lontano da noi. E infine lo dobbiamo ai nostri figli, che un giorno leggeranno le nostre immagini-documento e che, se non saranno abbastanza attendibili come tali, ci derideranno per la nostra stupidità.

Note

Pur avendo ricevuto numerosi riconoscimenti dal World press photo e avendo partecipato ad alcune attività della fondazione – inclusa l’esperienza di giurato per l’edizione 2014 del premio – non sono qui a scrivere per conto o a nome del Wpp.

Seconda precisazione – obbligatoria in un tempo in cui sui blog si scrive senza freni qualunque leggerezza passi per la mente – come in passato, anche quest’anno ho partecipato al concorso e non ho ricevuto alcun riconoscimento. Non è quindi questa la ragione per cui scrivo a proposito di un collega a cui è stato ritirato il premio. Anzi, posso affermare senza problemi che le fotografie di Troilo mi piacciono, anche se trovo che abbia commesso una leggerezza sottoponendole al giudizio di un premio giornalistico.

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