21 febbraio 2016 18:09

Bertolt Brecht, L’abicì della guerra
Einaudi, 162 pagine., 11 euro

Nel 1933, all’indomani dell’incendio del Reichstag da parte dei nazisti, Brecht cominciò il suo esilio attraverso l’Europa e gli Stati Uniti. Solo nel 1948 sarebbe tornato a Berlino, che di lì a poco sarebbe diventata capitale della Repubblica Democratica Tedesca. In quei quindici anni Brecht pubblicò la maggior parte dei suoi capolavori: Madre Coraggio e i suoi figli, la Vita di Galileo, Terrore e miseria del terzo Reich.

Nello stesso periodo raccoglieva in un quaderno fotografie ritagliate dai giornali che documentavano la guerra e i suoi effetti. Da questo materiale prese forma l’idea di un libro che riuscì a pubblicare solo nel 1955, un anno prima di morire, dopo molte trattative con il regime comunista tedesco: L’abicì della guerra, in cui le fotografie sono accompagnate da piccole poesie di quattro versi.

Come ha scritto Georges Didi-Huberman in un bellissimo saggio dedicato alla genesi di quest’opera (Quand les images prennent position, Les édition de Minuit), Brecht si proponeva di smontare il racconto ufficiale di ciò che era successo, fornendo al lettore un nuovo punto di vista, straniante, capace di rivelare una verità diversa. Ancora oggi, in un mondo trasformato, questo libro continua a insegnare come allontanarsi criticamente da ciò che abbiamo davanti agli occhi.

Questa rubrica è stata pubblicata il 12 febbraio 2016 a pagina 86 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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