26 marzo 2016 18:12

Giordano Meacci, Il cinghiale che uccise Liberty Valance
minimum fax, 452 pagine, 16 euro

È il romanzo più sorprendente di questi mesi, ed è italiano. Onnivoro e sfrenato, racconta un mondo che avrebbe potuto essere di Cassola, un borgo qualsiasi dalle parti del Trasimeno, avanti e indietro tra 1999 e 2000, alla fine di un secolo e agli oscuri annunci di un altro, con arditezze e sprezzature di sane avanguardie. E che, nell’epopea dei cinghiali la cui vita confligge inaccettata con quella degli umani, può perfino evocare Faulkner.

Sono cento le vite che il romanzo intreccia. Da uno ieri lontano e picaro, tra arcaico e moderno, fino all’avvento del post. Vite che vanno dal banale all’insolito, in un’umile e bizzarra Italia-mondo che sarebbe piaciuta a Fellini, tra il gioco di carte antico della “bestia”, le citazioni cinefile di due maniaci, a sbalzi come nella rayuela di Cortázar: “il gioco della campana” (la piccola comunità) che è “gioco del mondo” (il suo obbligato sconfinamento). Alla fine, è il punto di vista dei cinghiali a dominare, con il magnifico personaggio di Apperbohr, che capisce gli uomini e si dispera sulla miseria dei loro nemici.

Dirà il tempo se Meacci è un grande. Di certo è un romanzo fuori dal comune, da leggere insieme alle divagazioni su Pasolini professore (Improvviso il novecento) e ricordando che il suo autore ha collaborato al film di Caligari Non essere cattivo.

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