27 luglio 2015 18:37

Parecchi anni fa lavoravo al centro di Roma in una grande catena che vendeva dischi e libri, e mi ero data una missione. Volevo diffondere tra i romani e le romane la Mpb, la musica popular brasileira, che adoravo (e adoro) più di me stessa. Per me i “brasiliani” formavano una unica grande famiglia. Tanto che avevo preso l’abitudine di chiamarli semplicemente con il nome di battesimo, come se fossero amici d’infanzia: Chico, Gal, Maria, Caetano, Gilberto. Certo, consigliavo anche le nuove leve di allora come Lenine, Marisa Monte, Seu Jorge, Adriana Calcanhotto e quando potevo dissertavo anche della samba degli anni quaranta e cinquanta, parlando ai clienti di Luis Gonzaga e di Ary Barroso.

Ma il mio cuore “vagabondo” (per parafrasare una delle canzoni più note di Caetano Veloso) era indissolubilmente legato a un momento quasi mitologico della musica in lingua portoghese. E proprio Caetano Veloso rappresentava la summa di tutto quello che amavo nel Brasile musicale. Nei suoi testi ritrovavo l’Africa, l’Atlantico, il tormento, la passione. La sua voce vibrava dentro la mia cassa toracica. E spesso, dopo l’ascolto di un suo disco, mi ritrovavo in lacrime senza sapere bene perché.

Ricordo ancora che mi arrabbiavo moltissimo quando arrivavano le clienti chiedendomi: “Mi può dare Cucurrucucu Paloma, quella canzone che c’è nel film di Almodóvar?”.

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Erano quasi sempre signore dell’alta e media borghesia, in tailleur lillà e scarpe di camoscio. Io, anche se sapevo che la partita era persa in partenza, cercavo di spiegare che Caetano era di più, molto di più. Ed ecco che mi affannavo a tirar fuori album come Circuladô ao Vivo, Uns, Transa. “Si è occupato della schiavitù dei neri”, dicevo, e continuavo: “Adorava La strada di Fellini”. E poi immancabilmente chiosavo: “È stato in esilio. La dittatura lo aveva preso di mira. Ha sofferto”.

Per rafforzare le mie parole portavo davanti alle signore incredule la prova di tanto impegno politico: l’album Tropicália: ou Panis et Circencis (album collettivo che lo vedeva impegnato con Gil e molti altri), uno dei manifesti della lotta contro la dittatura e anche l’album che ha cambiato per sempre la traiettoria della musica brasiliana. Le signore mi guardavano con sufficienza, poco interessate al tropicalismo, alla dittatura, all’esilio di Caetano (e di Gilberto): “Siamo venute per Cucurrucucu Paloma”. Allora mi arrendevo e gli davo una raccolta che per me, che veneravo il percorso cronologico di Caetano, era quasi una bestemmia. Le signore se ne andavano contente e io me ne restavo tra i dischi con la mia frustrazione.

Allora non sapevo che eravamo in tanti a conoscere nel profondo questo artista. Raffinato, ma anche bohémien. Tradizionale, ma anche irriverente. Nato da una famiglia della piccola borghesia, nella regione più black del Brasile, il suo ambiente di formazione era dignitoso e spumeggiante, casalingo e internazionale (un ambiente che ha prodotto oltre a lui anche la sacra Maria Bethania e la poetessa Mabel). Quest’uomo timido e delicato è stato per molti di noi una sorta di santone che con il suo candore ci ha introdotto nei temi della politica più alta, quella che si occupa di persone e di memoria.

Ecco perché la polemica che sta investendo in questi giorni Caetano Veloso e Gilberto Gil, impegnati nel tour “Due amici, un secolo di musica” (a cui ho assistito nell’arena di Santa Giuliana di Umbria Jazz emozionandomi come una ragazzina), sta scuotendo gli animi in Brasile e non solo. La polemica è nata da una lettera di un altro mito della musica, Roger Waters dei Pink Floyd, che ha chiesto ai due artisti brasiliani di non esibirsi il 28 luglio a Tel Aviv, in Israele. All’appello si è unito il premio Nobel per la pace sudafricano Desmond Tutu, che ha scritto una lunga lettera ai due artisti dicendo:

Vi scrivo per spingervi a non esibirvi in Israele, un paese che continua la sua occupazione e l’apartheid contro il popolo palestinese […] Noi, sudafricani abbiamo sofferto decenni di apartheid e possiamo riconoscerlo altrove. Sono stato testimone di persona della realtà dell’apartheid che Israele ha creato all’interno dei suoi confini e nei territori palestinesi occupati. Ho visto le strade occupate, colonizzate e razzialmente segregate di Hebron […] Miei carissimi Caetano e Gil, ho visto l’apartheid israeliano in azione

Anche i movimenti si sono organizzati. E subito è nata una pagina Facebook Tropicalia não combina con Apartheid e più di ottomila persone hanno firmato la petizione online per chiedere agli artisti di annullare il concerto. L’hashtag #CancelaCaetanoeGil si è diffuso rapidamente e in Brasile la campagna ha avuto l’appoggio del rapper di Brasilia Gog e di padre Julio Lancelotti. La comunità dei fan dei due artisti si è divisa: devono andare, non devono andare. E un’altra pagina Facebook Tropicália combina com Liberdade ha accusato apertamente (e direi ingiustamente) Waters di antisemitismo. Qualcuno si è sentito tradito, “il tropicalismo è morto” è stato detto, mente altri hanno cercato di comprendere e di mettersi a fianco dei due cantautori brasiliani.

Ma tutti, non solo gli artisti coinvolti, sono stati messi davanti alla storia che non fa sconti a nessuno. Davanti a quel Medio Oriente che oggi più che mai è una ferita aperta nelle vite di ognuno di noi, a prescindere dalla posizioni personali, geografiche e politiche. La risposta dei due brasiliani non ha tardato a farsi sentire. Gil si è limitato a rispondere con un’intervista, in cui dice, tra l’altro: “Non ho interesse a mischiare la posizione discutibile dello stato di Israele con il popolo di Israele. Che ha una vita, una cultura, una dimensione simbolica propria. Persone che amano la musica brasiliana e l’apprezzano da molti anni. Io vado per questo, vado per loro”.

Nell’epoca dei social network, delle posizioni polarizzate, delle tifoserie, anche il dissenso è sempre più omologato

Caetano, invece, ha scritto una lettera, lunga ed elaborata, pubblicata dal quotidiano O Globo, che pone un serio interrogativo su quello che oggi consideriamo azione politica. Molti lo hanno liquidato dicendo che “si è venduto”, “ci ha tradito”, “vuole i soldi di Israele”. Ma nelle righe secche e concise della lettera c’è una posizione “radicale” quanto quella del tropicalismo che può piacere o non piacere. Caetano dice a Waters: “Il mio cuore è fortemente contrario alla posizione arrogante del governo israeliano. Odio la politica di occupazione, le decisioni disumane che Israele ha preso in quella che Netanyahu sostiene essere autodifesa. Credo che la maggior parte degli israeliani che si interessano alla nostra musica tendono a reagire in maniera simile davanti alla politica del loro paese”. E poi aggiunge: “Ho cantato negli Stati Uniti durante il governo di Bush e questo non significava che approvassi l’invasione dell’Iraq. Ho scritto e registrato un brano che si opponeva alla politica che ha portato alla prigione di Guantanamo, e l’ho cantato a New York e a Los Angeles. Voglio capire di più su quello che sta succedendo in Israele ora. Non cancellerei mai un concerto per dire che sono contro un paese”. E infine conclude: “Se le mie canzoni, la mia voce o la mia semplice presenza potessero aiutare gli israeliani che non concordano con l’oppressione e l’ingiustizia, ne sarei felice”.

La risposta del cantante bahiano ci parla di una resistenza dall’interno. È una risposta che ci dice come nell’epoca dei social network, delle posizioni polarizzate, delle tifoserie, anche il dissenso sia sempre più omologato. È come se si potesse dissentire in un solo modo, compiendo tutti le stessi azioni e dicendo le stesse parole. Ma siamo sicuri che un dissenso così omologato sia davvero efficace per le persone che vivono in quei territori? L’omologazione aiuta la causa? E i boicotaggi servono a smuovere la politica? O sono solo ideologia novecentesca? Domande complesse, a cui personalmente non ho una risposta. Ma già farsi domande, nella nostra epoca che esige risposte preconfezionate e spesso vuote, è un inizio di ragionamento.

Alla fine degli anni settanta un giovane Caetano, intervistato sulle sue posizioni politiche, disse che per lui essere di sinistra non era un’ideologia, ma era un modo di creare delle relazioni umane. Una politica sentimentale che metteva il corpo al centro dell’agorà pubblica e trasformava l’atmosfera. Corpi fragili come il suo che dialogavano con la precarietà di ogni presente. Ribellarsi era il verso di una canzone, la lunghezza dei capelli, portare la modernità in una cultura chiusa.

E di fatto Caetano Veloso, che ormai ha 72 anni sulle spalle e una esperienza che racchiude mille vite, applica lo schema del tropicalismo (e della sofferenza del suo esilio) alla polemica con Waters.

Eu quero seguir vivendo, amor 

Eu vou…‎

 Por que não, por que não

Io voglio continuare a vivere, amore 

Io vado… ‎
Perché no, perché no

Ora Caetano è lì. Ha visitato anche la Cisgiordania. Il concerto delle polemiche si avvicina. Cosa canterà? Un fan su instagram suggerisce: “Canta Haiti in Israele parlando della Palestina”. Un brano contenuto in Tropicalia 2, un rap lento e melodico, che si scaglia contro la brutalità della polizia.

Pense no Haiti, reze pelo Haiti

O Haiti é aqui

O Haiti não é aqui

Pensa a Haiti, prega per Haiti
Haiti è qui

Haiti non è qui

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