27 aprile 2015 10:42
La manifestazione per l’anniversario della liberazione a Milano, il 25 aprile 2015. (Pier Marco Tacca, Getty Images)

Se qualcuno confonde la ricorrenza della liberazione, il 25 aprile, con la festa della donna, del papà o altre amenità, è molto semplice: vuol dire che nessuno gliel’ha raccontata. E ne abbiamo avuto testimonianza dalle interviste ascoltate in tv.

Nei luoghi dove si forma la massa dei cittadini, cioè la scuola, la storia quando va bene passa ancora attraverso la parola asettica, scorporata, di un manuale, ignorando volutamente o colpevolmente le voci di chi, avendola vissuta, può ancora riattualizzarla per le generazioni venute dopo.

Scritture nate dall’esperienza e capaci di interrogarla a distanza di anni – come quella di Rossana Rossanda nella sua autobiografia, La ragazza del secolo scorso (Einaudi 2005) – non mancano. Basterebbe che a qualcuno venisse l’idea, neanche così trasgressiva, di strapparne qualche frammento e leggerlo insieme ai suoi alunni.

D’altra parte da un po’ di tempo assistiamo al moltiplicarsi di “giornate” speciali, commemorative di tutte le forme di barbarie che la modernità si è portata appresso, così che ognuno può alleggerirsi la coscienza e pensare che si sta parlando di altri.

Ai martiri delle persecuzioni nazifasciste, ai femminicidi, ai diritti conculcati per secoli di tanti popoli e culture, si aggiungerà l’ecatombe tutt’altro che innocente dei migranti che a migliaia lasciano nel Mediterraneo le loro speranze, e così una storia che incalza e preme fastidiosamente, dolorosamente, conflittualmente sulla nostra quotidianità, ecco che diventa improvvisamente “memoria”, alimento per spettacoli televisivi, merce per consumi più o meno compassionevoli.

Le ricorrenze, quando si fanno “rito”, ripetizioni di gesti, slogan, ricalco di proteste, indignazioni, ire ormai sopite, o mai conosciute – come per i più giovani – rischiano di avere come effetto quello di “annullare il tempo”, o di illudere su una mitica comunione di fini attraverso il “tempo del ritorno”.

Non diversamente dai rituali arcaici, che coltivavano il culto degli antenati, mantenendoli sospesi in una sorte di presenza-assenza, le commemorazioni, contraddittoriamente, finiscono per cancellare realtà che ancora chiedono analisi e risposte, o che sono del tutto ignorate dalla maggioranza dei cittadini. Di fatto – come si legge in un interessante saggio di Elvio Fachinelli, La freccia ferma. Tre tentativi per annullare il tempo (L’erba voglio 1979, Adelphi 1992) – si approda al “disconoscimento o diniego” di morti che tornerebbero a inquietarci a distanza di tempo e generazioni.

Mai mi è parso ancora più chiaro il significato distorto che può avere la ripetizione, quando diventa “replica cieca” di un già vissuto, come quando, lasciato l’angolo di piazza San Babila a Milano, là dove la manifestazione veniva deviata in corso Matteotti, mi sono ritrovata in mezzo alla folla che indifferente a ciò che avveniva a pochi metri – le contestazioni alla brigata ebraica – si muoveva tranquilla sotto i portici di corso Vittorio Emanuele.

Ho pensato, tristemente, che da entrambe le parti si stava “consumando” qualcosa: anche se da una parte erano dichiaratamente “merci”, e dall’altro passioni, sofferenze, atrocità o ideali profondamente umani, che rischiavano di diventarlo.

A casa, qualche ora dopo, mi sono messa a cercare consonanze nel racconto che della resistenza e della liberazione ha fatto Rossana Rossanda con la concretezza e la lucidità di una che “è stata invasa dalla politica” e travolta inaspettatamente dalla guerra quando nel 1943, per lei, come per molti altri “ogni privato splendido isolamento, ogni possibile alibi finivano”.

Del regime avevo avuto un’idea di gigantismo, un moloch da tenere lontano ma su fondo di Wagner e della Quinta di Beethoven, se doveva procombere sarebbe venuto giù come un obelisco. Invece era una mediocre resa dei conti che ci lasciava alla deriva, non una mareggiata, uno stagno. Un afflosciarsi senza decenza. Non solo l’oggi ma lo ieri cambiava forma. Che era stato? E noi che cosa eravamo stati? Che cosa avevamo capito, che cosa avevamo permesso? Io non ricordo un tacere per terrore, nessuno accanto a me era stato bastonato, negli anni trenta era finito, non c’era stato chiasso neanche negli ultimi processi. Ricordo che al silenzio parevamo abituati. E tutta quella gente partita, e le fatiche, le distruzioni, le perdite, i morti. Dunque si sarebbe potuto impedire? Si sarebbe dovuto. Non sapevo, non mi hanno detto. Ma ho chiesto? Quel sanguinoso ridicolo mi rimandava anche una derisoria idea di me. E che mi dicevano adesso il governo Badoglio, i giornali liberi? (…) Dovevo cercare da sola, andare fra gli altri, chiedere, ascoltare, sentire. Fu un agosto di collera e di impotenza, era troppo quel che non avevo visto o capito, che avevo allontanato o disinnescato. Sbattevo come una mosca in un bicchiere, un pipistrello sui muri. Non era paura, mi è sempre mancata la fantasia concreta del pericolo. Ero travolta, furente, tradita dai silenzi altrui e dalla opacità mia.

Silenzi altrui e opacità proprie: non sono queste le insidie che ancora oggi si annidano sotto il profluvio inarrestabile di notizie, allarmi, sdegni punteggiati di esclamativi? Sappiamo molto e con altrettanta rapidità molto dimentichiamo. Non dobbiamo aver bisogno delle “giornate della ricorrenza”, basterebbe rallentare la corsa, prendere fiato, e portare l’attenzione su ciò che passa ogni giorno davanti ai nostri occhi. O anche semplicemente, come scriveva Virginia Woolf, “pensare, pensare, pensare”.

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