29 luglio 2015 15:21

Nel 1979 la televisione italiana trasmette il documentario di Loredana Rotondo Processo per stupro. Un evento sorprendente, a cui assistono milioni di spettatori e che per la prima volta fa uscire dalle aule di un tribunale un fatto di violenza contro una donna, legato a quello che c’è di più intimo: la sessualità.

Tina Lagostena Bassi, difensora di parte civile o, come preferì definirsi “accusatrice degli imputati”, in un’intervista di molti anni dopo fece rilevare quello che già era emerso con chiarezza dal filmato: in un processo per stupro è facilmente prevedibile che l’attenzione si sposti sulla vittima, sui dettagli della sua vita privata, sulla sua moralità, sul suo possibile consenso o sul contegno che può avere provocato i “peggiori istinti” dell’aggressore.

In sostanza, si trattava di prendere atto che l’approvazione della legge che aveva trasformato la violenza sessuale da reato contro la morale a reato contro la persona (definitivamente nel 1996), non solo non aveva impedito che episodi analoghi si ripetessero, ma non aveva neppure scalfito l’ideologia insita nella conduzione dei processi, nella mentalità di giudici e avvocati.

Le culture ancora dominanti

La sentenza di assoluzione dei sei imputati per lo stupro avvenuto alla Fortezza di Basso a Firenze, le proteste, gli appelli, le manifestazioni che vi hanno fatto seguito, ripropongono perciò un “già visto” che interroga per un verso la cultura maschilista ancora dominante nel nostro come in altri paesi, per l’altro la scarsa incisività delle consapevolezze nuove e del cambiamento che il femminismo è venuto portando sulla relazione tra i sessi.

Il legame tra sesso e potere nella costruzione della sessualità maschile non è stato analizzato a fondo

Un grande passo avanti è stato riconoscere che la violenza maschile contro le donne è un “fatto strutturale” e non un’emergenza, un caso di cronaca nera, o la patologia di un singolo. Ma su quali siano le “strutture”, i “fondamenti” a cui deve la sua durata, la tendenza a ripetersi nell’indifferenza di tempi, luoghi, generazioni, poco si è detto, se non che rimandano a una “normalità” ancora da indagare nei suoi risvolti “perturbanti”.

La manifestazione a Firenze, il 28 luglio 2015. (Aleandro Biagianti, Agf)

Per cominciare, si potrebbe partire allora da due domande semplici: che cosa fa pensare a un giovane stupratore, così come a un attempato, severo custode della legge, che una ragazza o una donna possa “desiderare e godere del fatto che l’altro eserciti una violenza fisica e mentale su di lei”?

Marina De Carneri, che ha pubblicato di recente un saggio di rara lucidità sull’“inconscio patriarcale della psicanalisi” (Il fallo e la maschera, Mimesis 2015), scrive:

Attraverso la mitologia, come oggi attraverso il cinema o la televisione, gli uomini greci e romani trasmettevano ai figli l’etica della virilità che era una etica del potere e del dominio espressa attraverso l’esercizio dello stupro. La mitologia greca è piena di stupri su donne e fanciulli, chiamati eufemisticamente ‘seduzioni’ o ‘ratti’ (…). Per i romani, come per noi fino a pochi decenni fa, lo stupro non era un reato contro la persona, ma contro la morale. Di conseguenza, tutti gli uomini e le donne delle classi inferiori (stranieri, schiavi, liberti) potevano essere liberamente stuprati.

Il legame tra sesso e potere nella costruzione della sessualità maschile non è stato evidentemente analizzato a fondo, né si è riflettuto abbastanza sulla sorprendente verità contenuta nell’affermazione di Freud: “Che la crudeltà e la pulsione sessuale siano intimamente connesse ce lo insegna senza dubbio la storia della civiltà umana”.

Che altro ci insegna la storia della civiltà umana?

In quella summa visionaria della cultura greco-romano-cristiana che è Sesso e carattere – il libro del filosofo viennese Otto Weininger suicida a soli 23 anni, che attribuisce alla donna, alle sue profferte sessuali, o semplicemente al suo essere un “corpo erotico” la molla prima dell’incontenibile aggressività maschile – trovano il loro fondamento culturale e nobilitante il senso o il pregiudizio “comune”, e insieme quell’ideologia che ha diviso, insieme al destino dei sessi, il bene dal male, la virtù dal peccato, lo spirito dalla materia.

Scrive Weininger:

Quando l’uomo divenne sessuale creò la donna. Che la donna esista non significa dunque altro se non che l’uomo affermò la sessualità. La donna è solamente il risultato di tale affermazione, è la sessualità stessa. La donna è la colpa dell’uomo, è l’oggettivazione della sessualità maschile, la sessualità incarnata, la sua colpa divenuta carne (…). Si sottoporrà la donna all’idea morale, all’idea dell’umanità? Questa soltanto infatti sarebbe emancipazione della donna.

Se si vogliono scalzare gli stereotipi di genere, che sono alla base dei rapporti di potere tra uomo e donna, ma anche del perverso legame tra amore e violenza, è alla cultura alta e alla sua presunta “neutralità” che bisogna guardare con coraggio e senso critico.

Dopo la provocazione liberatrice di Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, sembra che anche gran parte del movimento delle donne abbia preferito volgere gli occhi altrove, rivisitare in chiave di positività la tradizionale “differenza” femminile, ricostruire “genealogie” del proprio sesso, anziché continuare a scalfire l’immaginario che ha permesso ai padri di trasmettere ai figli la consegna di un potere inscritto nelle istituzioni pubbliche quanto nelle relazioni più intime, come la sessualità.

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