12 febbraio 2016 12:16

La scelta di Angela Merkel di aprire la porte ai rifugiati e i fatti avvenuti a capodanno a Colonia hanno scatenato in Germania un acceso dibattito sull’immigrazione. Dibattito che si ritrova anche nella sessantaseiesima edizione della Berlinale. Almeno una decina dei film selezionati per il festival affrontano questo tema, e tra questi c’è Fuocoammare di Gianfranco Rosi, uno di due documentari in concorso, frutto di più di un anno di riprese a Lampedusa. In più i richiedenti asilo presenti a Berlino (ne sono arrivati quasi 80mila solo nel 2015) sono stati invitati al festival, attraverso le varie associazioni berlinesi che se ne occupano. E lo chef stellato Roberto Petza lavorerà con un gruppo di profughi nello Street food market allestito dal festival per il terzo anno consecutivo nei pressi di Potsdamerplatz.

Del resto, come ha ricordato il direttore del festival Dieter Koslick prima della conferenza stampa della giuria, presieduta da Meryl Streep, c’erano tanti sfollati e profughi di guerra in Germania anche nel 1951, quando il festival fu fondato “per favorire l’intesa e l’armonia nella società tedesca e fra le nazioni”.

L’armonia tra le tribù di critici e cineasti presenti al festival non è stata certo guastata dalla scelta del film di apertura, Ave, Cesare! dei fratelli Coen. Se Tarantino divide, i fratelli Joel & Ethan hanno messo tutti d’accordo. A volte, è vero, possono deludere. Ma non questa volta. Omaggio affettuosamente malizioso (o viceversa) alla Hollywood degli anni cinquanta, il nuovo film dei fratelli del Minnesota – la terza parte della loro numbskull trilogy (trilogia del cretino) girato con George Clooney dopo Fratello, dove sei? e Prima ti sposo, poi ti rovino – è un ritorno a una commedia demenziale ma intelligente che i Coen sono quasi gli unici a praticare oggigiorno, almeno in modo così puro.

Ave, Cesare!

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In piena sintonia con i fratelli registi che per primi hanno tirato fuori il suo lato comico, Clooney interpreta Baird Whitlock, un attore bellone ma piuttosto tonto legato contrattualmente ai Capitol studios. Whitlock sta girando Ave, Cesare!, un peplum cristiano, tipo Ben Hur. Durante le riprese viene rapito da un gruppo di sceneggiatori comunisti e non riuscirà mai, per tutto il film, a togliersi di dosso il suo costume da centurione.

Ave, Cesare! – il film dei Coen, non quello incastrato dentro – è un ritratto cinico dello studio system ma è anche una lettera d’amore nei suoi confronti. Già in Barton Fink i fratelli avevano usato il periodo d’oro di Hollywood come il sottofondo per un film che mescolava la commedia con sfumature di giallo. Qui, però, la scena si sposta da una triste camera d’albergo nella periferia di Hollywood – dove lo sceneggiatore interpretato in quel film da John Turturro lottava contro un blocco creativo – al cuore dell’industria, gli studios stessi, rappresentati attraverso un’abile campionatura visiva dei backlots di Universal, Warner, Sony e Paramount.

Il film si muove al passo frenetico di Eddie Mannix (Josh Brolin), anche lui una campionatura di due famosi personaggi Hollywood degli anni quaranta, cioè il vero Eddie Mannix, vicepresidente della Mgm, e il suo capo ufficio stampa Howard Strickling. Tutti e due erano dei fixer, cioè risolvevano problemi legati soprattutto alla vita sregolata degli attori a contratto presso lo studio (come quando Clark Gable, ubriaco fradicio, finì con la sua macchina contro un albero a Sunset boulvevard, nel marzo del 1945).

Joel Coen con il cast di Ave, Cesare! a Berlino, l’11 febbraio 2016. (Stefanie Loos, Reuters/Contrasto)

Trascinati da Mannix, che non dorme mai, passiamo da teatro di posa in teatro di posa, come quello dove si sta girando una fantasia acquatica stile Busby Berkeley con una Scarlett Johansson sirena raggiante à la Esther Williams. Solo che fuori dal set è una diva viziata e volgare alle prese con il problemino, per lo studio, che è incinta ma non sposata. In un altro teatro, un raffinato regista britannico (Ralph Fiennes) cerca di dare lezioni di recitazione a un attore cowboy (il bravo Alden Ehrenreich) che gli è stato affidato come protagonista di una commedia brillante di alta società perché lo studio vuole cambiare la sua immagine. Tornando al set di Ave, Cesare!, la scomparsa dell’attore principale getta tutti nello sconforto, anche perché costa allo studio una barca di soldi. Veniamo a sapere che all’epoca una comparsa costretta a stare sulla croce – come contorno di Gesù – prendeva 3,40 dollari all’ora di indennità di rischio.

Ave, Cesare! è divertimento colto allo stato puro, permeato da quella vena di malinconia esistenziale che veniva fuori in modo forse più netto in film come A serious man oppure A proposito di Davis ma che qui, comunque, è sempre in agguato. È un film che ci ricorda che la frase dream factory – fabbrica dei sogni – è un ossimoro. L’industria cinematografica produce sogni, per dirlo alla maniera degli sceneggiatori marxisti che rapiscono il personaggio di Clooney, sfruttando tutti, spettatori compresi. Ma questo rullo compressore, con le sue energie, tenerezze, invidie, debolezze, atti di coraggio e codardia, le sue barzellette e le sue crisi mistiche, somiglia molto al mondo in cui viviamo.

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