18 maggio 2016 12:14

Con poco più della metà dei film in concorso già passati al festival di Cannes, volevo tentare un bilancio provvisorio di un’annata che si sta rivelando particolarmente forte.

Ho già detto la mia su Toni Erdmann, la sorprendente commedia tedesca che è stata una delle rivelazioni del festival finora. È in testa al molto seguito Jury grid della rivista cinematografica Screen International, compilato sommando i verdetti di 11 critici internazionali, tra cui Stephanie Zacarek di Time, Michel Ciment di Positif e Fabio Ferzetti del Messaggero. La media di 3,7 voti su un massimo di 4 realizzato dal film di Maren Ade è la più alta mai registrata da quando il sondaggio esiste.

Al secondo posto, con una media di 3,5, è arrivato Paterson di Jim Jarmusch, commedia malinconica, intrisa di nostalgia per la sana provincia americana di una volta, che racconta la storia di un autista di autobus, di nome Paterson, che lavora nella città di Paterson, New Jersey, e nel tempo libero scrive poesie. Appaiono sullo schermo mentre le compone: sembrano delle copie goffe di quelle del suo eroe, William Carlos Williams (anche lui nativo di Paterson). Ma forse questo è il punto. Per estrarre poesia dalla quotidianità – una scatola di fiammiferi, per esempio – non serve essere dei geni letterari, servono semplicemente degli occhi per vedere e delle orecchie per ascoltare, e l’introverso Paterson, poco incline a sfoggiare le sue emozioni, possiede tutti e due.

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È un film di ritorni, ritornelli, come la passeggiata con il cane che Paterson intraprende ogni sera fino al bar dove prende sempre la stessa birra seduto sullo stesso sgabello. Sotto la superficie di un film “carino”, c’è un discorso più serio, sulla circolarità e la vita come strano teatro metafisico. È molto Jarmusch, in altre parole – ma Jarmusch con le pantofole.

Non si potrebbe mai accusare Andrea Arnold di essere una pantofolara. Francesco Boille ha già scritto un bel pezzo su Internazionale sul nuovo film della regista britannica, American honey, un road trip attraverso gli Stati Uniti con un gruppo di ragazzi venditori di abbonamenti di riviste. A mio avviso la pretenziosità dell’esercizio – quasi tre ore senza sceneggiatura, con personaggi appena abbozzati, in compagnia di un branco di giovani carini ma vacui – ha prevalso sul tentativo, che pure ho apprezzato, di offrire un ritratto di una generazione che scoppia in un Midwest americano già scoppiato, sgonfio, fallito, un paesaggio disperato di centri commerciali mezzo abbandonati e motel convertiti in ostelli per famiglie povere.

Almeno la fotografia del sempre bravo irlandese Robbie Ryan si salva: è un maestro nell’usare la luce naturale, e qui (come già in Cime tempestose, sempre a fianco di Arnold), usa la scatola quasi quadrata del vecchio rapporto Academy in un modo totalmente contemporaneo che il mio amico Guy Lodge, critico di Variety, ha definito giustamente “Instagram in motion”.

I film evolvono, crescono, o si rimpiccioliscono durante la loro seconda vita mentale. American honey è già migliorato quando è finita la tortura di guardare quello che a volte sembra un reality show di Mtv.

La mia mente traditrice sta applicando la stessa doratura postproiezione a Personal shopper, il film di Olivier Assayas con Kristen Stewart: che è diventata, chi l’avrebbe detto, un’attrice proprio brava. È un film pieno zeppo di idee, fin troppo, una confusione di generi come l’horror, il giallo, il dramma psicologico e la satira sul mondo della moda e la celebrity culture.

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È un film su rimozioni e surrogati, che parte da una forte rimozione emozionale: un fratello gemello morto. Maureen, il personaggio triste, solo e sciatto di Stewart, riesce a captare messaggi dall’aldilà come faceva suo fratello. Lei aspetta un colpetto sulla spalla da parte di lui per poter elaborare il lutto, ma nel frattempo lavora a Parigi come personal shopper per una celebrità, forse una ex modella, che Maureen non vede quasi mai.

Un dramma piatto

Comunicano attraverso messaggi, proprio come quelli che un essere misterioso comincia a mandare a Maureen sull’iPhone, perché questo è anche un film su come abbiamo delegato una parte della nostra anima a degli apparecchi elettronici. In Personal shopper, ci sono tre coppie, ma non vediamo mai lui e lei insieme nello stesso posto, se non grazie a Skype. In un film che cita, in modo un po’ troppo saputello, l’artista svedese occultista Hilma af Klint e le sedute spiritiche di Victor Hugo, ma anche Vestito per uccidere di Brian De Palma e Vertigo di Hitchcock, c’è tantissima carne sul fuoco, anche carne al sangue. Ma tutto questo tripudio di spunti finisce dentro a un film che, se togli un paio di effetti speciali, è piatto come un dramma televisivo.

Ci vorrebbe il tocco di Pedro Almodóvar, che sforna, con Julieta, un melodramma femminile che non fa niente di nuovo, ma lo fa con rara maestria. O quello del regista romeno Cristi Puiu, che in Sieranevada usa la cinepresa mobile dentro un appartamento dove si sta volgendo una veglia funebre per comunicare un senso di claustrofobia esistenziale.

Quello che è certo è che finora questo è stato il più bel concorso di Cannes da tanti anni a questa parte. Speriamo che regga fino alla fine.

Correzione, 18 maggio 2016

Nella versione precedente di questo articolo c’era scritto che il regista di Personal shopper è François Ozon.

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