24 marzo 2015 14:07

Che cosa facciamo noi insegnanti mentre aspettiamo che i politici ci diano ragione sul fatto che scuole ormai ottocentesche sono inadeguate al ventunesimo secolo e che dovremmo incoraggiare la creatività e non la competizione tra gli studenti?

Cambiamo il sistema dall’interno.

Prima lavoriamo su noi stessi per trovare il coraggio di abbandonare il nostro ruolo di fonitori di contenuti e accettare l’idea di dover cambiare ruolo continuamente nelle nostre classi: a volte dobbiamo essere facilitatori, altre volte mentori, altre ancora padroni di casa che creano uno spazio sicuro per l’apprendimento.

Spostare continuamente il focus del lavoro in classe in questo modo non è un’impresa facile, e non finisce mai. Non è questione di un giorno. Richiede l’umiltà di capire che non dobbiamo necessariamente essere una fonte di saggezza per i nostri alunni. Richiede pazienza e tenacia.

Dobbiamo condividere la nostra idea di cambiare focus con i colleghi, per creare la magia della creatività combinatoria. Prendere qui e lì per trovare il mix più adatto ai nostri studenti. Si procede sempre per tentativi ed errori. E bisogna anche leggere molto.

Sappiamo che è una fatica di Sisifo, a volte il masso rotola di nuovo giù fino ai piedi della collina. Ma dobbiamo trovare la forza di ricominciare. E ci riusciremo, con l’aiuto dei nostri amici e alleati che capiscono perché lo stiamo facendo e perché ne vale la pena.

Posso dirmi “fortunata” di essere stata sia studentessa sia insegnante nel Sudafrica dell’apartheid, perché è lì che ho imparato a leggere tra le righe dei programmi ministeriali e a cercare continuamente il modo per aggirare i limiti e le imposizioni del sistema scolastico.

Penserete che c’è un’enorme differenza tra il sistema dell’istruzione sudafricano e quello canadese, ma non dovete dimenticare che entrambi questi paesi sono ex colonie britanniche e hanno importato lo stesso modello educativo industriale. Buona parte di quello che faccio adesso in Canada è una forma più raffinata di quello che facevo in Sudafrica quando sono diventata insegnante per caso. Ma questa è un’altra storia.

Un insegnante non può fare nulla per cambiare il modo in cui è suddivisa la giornata nelle scuole, ma può fare molto per il modo in cui è organizzata la giornata della sua classe. Io insegno lettere agli adolescenti in un quartiere degradato. Abbiamo quattro blocchi di lezioni al giorno: due la mattina e due dopo la pausa pranzo di 40 minuti, ogni blocco è di 77 minuti.

Il tipo di attività che posso svolgere in classe dipende dal momento della giornata. A volte è una lezione frontale, a volte un’attività sperimentale, altre un controllo per vedere a che punto sono gli studenti, altre ancora è un momento di relax o di meditazione prima di cominciare a lavorare. Decido che cosa fare in base ai risultati delle ricerche su come funziona il cervello degli adolescenti. La mattina presto e alla fine della giornata non sono al massimo delle loro capacità, quindi in quelle ore evito le lezioni frontali.

Uso la classe come il ponte degli ologrammi di Star Trek. A volte è un laboratorio, a volte un paese, altre un tribunale o un parlamento e a volte un salotto dove si conversa. Qualche volta, naturalmente, è solo una classe.

Incoraggio gli studenti a farmi domande direttamente, via email o in forma anonima usando la popolarissima Question box. Le loro domande mi fanno capire che cosa li preoccupa e che cosa manca al mio insegnamento. Una collega di matematica ha adottato lo stesso sistema adattandolo alla sua materia, ma la sua scatola si chiama Panic box e gli studenti possono metterci le domande sui contenuti del corso che li mandano nel panico.

Riduco al minimo le lezioni teoriche e cerco per quanto posso di usare i programmi in un modo che consenta ai miei studenti un tipo di apprendimento basato sulla risoluzione di problemi (apprendimento per problemi) e l’esperienza diretta (apprendimento esperienziale). Quando ho cominciato, non sapevo come si chiamassero questi metodi. Nella maggior parte dei casi “costruisco la strada camminando”, cerco solo di creare esperienze di apprendimento significative per gli studenti.

Nei miei sogni, immagino che l’apprendimento basato sulla soluzione di problemi e sull’esperienza diretta sarà al centro di quello che si farà nelle scuole pubbliche in futuro.

E spero veramente, nonostante la campagna per tagliare fondi all’istruzione pubblica, che riusciremo a mantenerla in piedi. Nonostante i loro molti difetti, le scuole pubbliche sono ancora molto importanti. Non sono solo istituzioni che rilasciano un titolo di studio ufficialmente riconosciuto, sono anche spazi sicuri per quegli studenti che a casa hanno una vita difficile, sono oasi nei quartieri più pericolosi, sono i posti in cui molti studenti fanno il loro unico pasto quotidiano e in cui possono parlare con un adulto delle loro paure e preoccupazioni.

Le scuole pubbliche sono tra i pochi luoghi pubblici rimasti che funzionano come comunità, sono spazi per le persone, non per il profitto.

In quale altro posto al mondo un adolescente che per il suo sedicesimo compleanno riceve in regalo un’automobile da 30mila dollari può stare seduto vicino a uno che fa un pasto decente solo tre volte alla settimana?

Con tanti spazi comuni ormai occupati dalle aziende private, la scuola pubblica è vitale per molti studenti. È ancora la grande livellatrice, il luogo dove ragazzi che provengono da classi sociali diverse possono incontrarsi su un terreno comune.

È vero, il sistema dell’istruzione deve cambiare, ma intanto lavoriamo per ridargli slancio. Non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca.

Cambiamo il sistema dall’interno.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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