25 giugno 2016 10:49

A Lambeth, la circoscrizione di Londra sud in cui vivo, misto di lingue e di etnie, lavoratori e giovani professionisti, il 79 per cento ha votato per restare nell’Unione europea. Ancora a dieci minuti dalla chiusura dei seggi, attivisti entusiasti continuavano a distribuire volantini a favore del remain (restare), salutati con allegria dalla gente che usciva dalla metropolitana di Brixton. Durante tutta la campagna non avevo visto un solo cartello o volantino in favore della Brexit. Stessa atmosfera in quasi tutto il resto di Londra.

Sapevamo, certo, che altrove nel paese l’atmosfera era diversa. E che negli ultimi sondaggi favorevoli al remain restava l’incognita dei “Brexiter timidi”, quelli che si vergognavano ad ammettere la loro intenzione di voto – esattamente come i “Tory timidi” che avevano sfalsato le previsioni per le elezioni dell’anno scorso. Ma eravamo comunque ottimisti. La Brexit restava un’ipotesi così grottesca da non poter entrare davvero nella realtà della vita dei londinesi.

Quando, durante la notte dello spoglio dei voti, sulla Bbc è apparso il grafico con il primo crollo verticale del valore della sterlina, con il commentatore visibilmente sconvolto e a corto di parole, un netto senso di gelo ha iniziato a farsi strada. I nomi delle circoscrizioni londinesi in cui la maggioranza aveva votato per il remain, assieme a quelle di alcuni altri centri urbani, della Scozia e dell’Irlanda del Nord, non bastavano a interrompere l’elenco di circoscrizioni provinciali che una dopo l’altra allungavano il vantaggio del leave (lasciare). Le faglie di divisione si mostravano in modo drammatico. Un Regno disunito su numerosi fronti. Capitale cosmopolita contro provincia. Scozia e Irlanda del Nord contro Inghilterra e Galles. Oltre alle divisioni già note nella composizione sociale: votanti anziani pro-Brexit contro giovani disperatamente in favore del remain; classe lavoratrice – incantata da pifferai magici come Boris Johnson e Nigel Farage – contro ceti medio-alti.

Il voto è diventato l’occasione per l’Inghilterra profonda di gridare la sua insofferenza per Londra

La divisione più grande è apparsa quella fra la “gente comune”, come la chiama Farage, e qualunque forma di establishment o presunto tale. Che il referendum diventasse anche un momento di protesta contro il primo ministro David Cameron con i suoi tagli alla spesa pubblica, e contro la contrazione del tenore di vita negli ultimi anni, era atteso. Di fatto, è diventato l’occasione per l’Inghilterra profonda di gridare la sua insofferenza per il governo, per la banche, la burocrazia, l’Europa, la globalizzazione, gli intellettuali, gli esperti che avvertivano dei pericoli della Brexit, l’“invasione” degli immigrati europei. E l’insofferenza per Londra.

Se il fallimento politico di Cameron è ovvio, lo è anche quello del Labour. Nonostante il partito laburista sostenesse il remain, il leave ha vinto in aree tradizionalmente di sinistra nel nord dell’Inghilterra e in Galles. Il partito si è mosso in modo tardivo e confuso nella campagna referendaria. Jeremy Corbyn non ha fatto sforzi per nascondere di essere un europeista tiepido (a un paio di settimane dal voto, alla domanda di un presentatore televisivo su quanto tenesse all’Europa ha risposto con un sette e mezzo). Soprattutto, il fallimento laburista è stato nell’incapacità di offrire risposte alternative all’inquietudine di fronte all’immigrazione, e di comunicare che la vera battaglia era riformare l’Europa in un modo più attento alla giustizia sociale.

Uno sgomento tutto italiano

Mentre l’alba si avvicinava, illuminando una capitale in stato di shock, lo sgomento che mi ha preso alla fine dello spoglio dei voti è stato, anzitutto, quello di un londinese. Lo stesso che ha fatto congregare una folla rabbiosa davanti alla residenza londinese di Boris Johnson per fischiarlo quando è uscito di casa. Lo stesso che ha radunato una manifestazione di giovanissimi davanti a Downing Street nel pomeriggio, e che ha fatto partire un’immediata petizione online per chiedere che Londra diventi uno stato indipendente e possa restare nella Ue: idea ovviamente improbabile ma che riassume i sentimenti di tanti abitanti della capitale. Londra non è mai stata un paradiso. Ma la sua energia e apertura la rendono un posto unico. Sabotare la sua economia, impedendole di continuare a essere una capitale – motore d’Europa, e farla diventare una città meno accessibile all’immigrazione – due fra gli effetti probabili della Brexit – la renderanno diversa.

Poi, lo sgomento di un immigrato europeo che vive qui. È presto per dire cosa cambierà nelle condizioni burocratiche per vivere e lavorare nel paese, ma l’incertezza pesa, da ora, sulla vita dei tre milioni di europei residenti nel Regno Unito. C’è anche uno sgomento tutto italiano. Dopo l’Italia berlusconiana, non credevo avrei mai più assistito a un altro atto di masochismo tanto colossale da parte di una nazione.

Vengo dalla provincia, vengo dalla classe lavoratrice. Vedere la frustrazione della gente trasformarsi in sollevazione autolesionista è qualcosa che mi ferisce, ovunque succeda. L’Inghilterra profonda si è fatta strumentalizzare da figure come Boris Johnson, un privilegiato educato a Eton furbamente riciclato in capopopolo, che ora avrà via libera per spostare l’asse del governo nettamente più a destra. O come Nigel Farage, il populista di destra che non crede neppure al cambiamento climatico, e che già il mattino dopo il referendum, candidamente, ha iniziato a ritrattate le promesse fatte nel corso della campagna.

Chi, anche da sinistra, anche in Italia, saluta la svolta britannica come un passo necessario per smantellare un’Europa ingiusta e tecnocratica, dovrebbe spiegare come la brusca virata a destra del Regno Unito, un contagio di destre nazionaliste dall’altra parte della Manica, e un’altrettanto probabile successione di contraccolpi economici, aiuteranno il continente a diventare un posto migliore.

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