27 gennaio 2016 09:28

“È vero, piangono molto. Gridano. Dopo un incontro, dopo che me ne sono andata, capita che debbano assumere dei farmaci per il cuore o addirittura che chiamino la guardia medica. Sono loro stesse a raccontarmelo poi, eppure insistono: ‘Torna a trovarmi, torna senz’altro. Abbiamo taciuto per così tanto tempo. Per quarant’anni abbiamo taciuto…’”. Nulla meglio di questo passo di un libro di Svetlana Aleksievič spiega il dolore e il dovere della memoria, il costo che si paga a ricordare.

Aleksievič indagava l’epopea delle donne sovietiche nella seconda guerra mondiale, ma lo stesso drammatico intreccio di responsabilità e rifiuto, di volontà e sottrazione emerge ogni volta che a essere interpellate sono memorie traumatiche, ricordi di tragedie individuali o collettive. Forse bisognerebbe partire da qui, dalla consapevolezza del prezzo della memoria, per evitare che la giornata del 27 gennaio si trasformi gradualmente in una data retorica, stucchevolmente emotiva, superficialmente celebrativa.

È un rischio che ogni memoria e ogni ricorrenza corre, ovviamente, e vale per altre date nobili del nostro calendario, come il 25 aprile e il 2 giugno, per esempio. Ma nel caso della memoria della Shoah il pericolo è insieme più forte e più ingiustificabile. Perché lo sterminio degli ebrei, nella sua irriducibile unicità, è oggi il paradigma allo stesso tempo più limpido e più controverso di come il nostro tempo viva il suo rapporto con il passato e della doppia sfida fondamentale che la memoria oggi affronta: non cedere di un millimetro sul piano del rispetto verso il dolore sparso da milioni di uomini e di donne, non farsi recludere nell’amarezza della fissazione e della rivendicazione: “La memoria può essere maestra di libertà”, ha scritto il neuropsichiatra Gabriel Levi, “soltanto se non è una memoria prigioniera, perché dolorosamente ripetitiva”.

Da questo punto di vista il più aggressivo nemico della memoria non è l’oblio. La cancellazione del passato è un obiettivo sempre più irraggiungibile anche per il dittatore più feroce e il revisore più tenace. Non è solo questione di tecnologie (che però contano, e quanto contano, specie quando i testimoni diretti lentamente scompaiono), non è solo un problema di registrazione e di conservazione. In mezzo a tante contraddizioni e distrazioni, è cresciuta una sensibilità collettiva, o anche solo un apparato mediatico-culturale, che rende più difficile la totale rimozione o l’aperta falsificazione. Altre minacce mi sembrano più attuali: la strumentalizzazione, la superficialità, la confusione, la fissazione.

Insulti feroci e impuniti

Usi strumentali della memoria e della storia sono in campo da sempre. Memorie di parte o reinventate sono classici meccanismi di costruzione e difesa delle identità. Nel caso della Shoah continuano a operare in forme subdole oppure vistose. Tra le prime continuano a spiccare tutti i tentativi di ridimensionamento e di relativizzazione che cancellano responsabilità decisive e ne suggeriscono altre inesistenti o irrilevanti: mentre non cessano le allusioni alle responsabilità ebraiche, per esempio, emergono solo a fatica carichi e colpe proprie.

Dei circa 700 ebrei deportati da Roma successivamente alla tragica retata del 16 ottobre 1943, ha ricordato di recente lo storico Amedeo Osti Guerrazzi, almeno 439 (quasi la metà) furono traditi o arrestati dagli italiani. Ecco un caso in cui la memoria ha (o meglio, avrebbe) davvero un prezzo alto, che finora nessuno ha voluto pagare. A un tentativo invece vistoso di strumentalizzazione abbiamo assistito qualche mese fa con il discorso di Benjamin Netanyahu che attribuiva al mufti di Gerusalemme almeno una quota di responsabilità nel progetto di soluzione finale. A parte l’insostenibilità storica, l’effetto è quello di confondere le radici reali della Shoah, tutte iscritte nella tradizione occidentale, compresi i suoi spesso celebrati valori cristiani. In questa confusione, più o meno deliberatamente perseguita, è facile proliferino negazioni e irrisioni di ogni tipo. È curioso e soprattutto desolante che in un luogo cruciale della nostra vita collettiva come i campi di calcio e le loro tribune, gli insulti più feroci (e praticamente impuniti) prediligano con chirurgica precisione proprio le figure vittime dei lager: ebreo, frocio, zingaro di merda.

Lavorare sulle nostre paure, dunque, non nasconderle, non demonizzarle ma non corteggiarle, soprattutto per lividi calcoli politici o editoriali

Infine le fissazioni, quella forma di prigionia psicologica e morale che impedisce di riconoscere nelle sofferenze altrui non certo la ripetizione ma la traccia e l’ombra delle proprie. Come nel caso di alcuni recenti episodi nel trattamento di profughi e migranti che non potevano non richiamare alla memoria le pagine più tragiche del racconto dei lager. Se nessun paragone appare certamente possibile, l’indifferenza con cui questi episodi sono stati assorbiti da un’opinione pubblica sempre pronta a celebrare le sue giornate della memoria è davvero sconcertante. Non solo viene così inibita ogni umana empatia ma è cancellata la possibilità stessa di riconoscere e capire. E di fare della memoria e dei suoi riti, celebrazioni comprese, un atto di comprensione e di libertà, aperto al futuro (”affinché simili eventi non possano mai più accadere” come dice la legge che ha istituito il giorno della memoria) e non recluso sul suo passato.

Parlare e ascoltare

Se dunque non è l’oblio il principale nemico della memoria, l’antidoto alle sue deformazioni non può essere il semplice ricordo. Non solo per il rischio sempre incombente dell’assuefazione. Ma perché per capire, elaborare, superare davvero occorre qualcosa di più e di più faticoso, forse. Guardare più profondamente dentro se stessi, per esempio, scrutare il pericolo che corre ogni rivendicazione aggressiva di identità, ogni indicazione ossessiva di un nemico che cambia e che, accanto alla sua reale ferocia e pericolosità, porta sempre con sé l’ombra delle nostre paure. Lavorare sulle nostre paure, dunque, non nasconderle, non demonizzarle ma non corteggiarle, soprattutto per lividi calcoli politici o editoriali. Se c’è qualcosa che l’infamia della Shoah ancora non ha smesso di gridarci è quanto sia facile trasformare discriminazioni anche sottili in odio via via più aperto e poi in violenza sterminatrice.

E se c’è qualcosa di prezioso in questa giornata è dunque nella possibilità di parlare e di ascoltare ancora. Perché al di là di ogni retorica, abbiamo bisogno non di meno parole ma di più racconti e di più storie. Contro ogni superficialità e ogni banalità, contro ogni illusione sulla facilità della memoria. Non è un caso se tra i libri recenti, quelli più interessanti aiutano a capire la Shoah e la sua irriducibile ferocia da punti di vista particolari, a volte apparentemente marginali ma invece significativi perché meglio chiariscono meccanismi e inclinazioni ancora vivi.

Il prezzo della memoria implica anche questa fatica di indagare, esplorare, non accontentarsi delle generalizzazioni, non trascurare i particolari e i dettagli perché di questi si nutre una memoria resistente. Ancora Svetlana Aleksievič: “Ho spesso ricevuto dei testi in lettura con l’annotazione: ‘Meglio lasciar perdere certi dettagli inutili… Scrivi piuttosto della nostra grande Vittoria…’. Ma per me sono proprio i ‘dettagli inutili’ a essere essenziali: costituiscono il calore e l’evidenza della vita”. A questo serve una memoria attiva e forse anche una giornata della memoria.

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