23 giugno 2015 16:21

Alla fine siamo arrivati alla prova di forza. Complici i deludenti risultati elettorali e il conflitto interno al Partito democratico, la riforma della scuola approda al voto in senato in un clima di scontro frontale. Ed è ormai seriamente a rischio.

Se non si trova un accordo sugli emendamenti che saranno proposti dai relatori, potrà essere approvata solo con un voto di fiducia. Non è ancora chiaro se questa sarà posta davvero. Sarebbe meglio di no. Sarebbe meglio votare direttamente la proposta emendata, lasciando ai senatori la responsabilità di fermare il disegno di legge. Lasciando a ogni singolo la responsabilità di affossare, per l’ennesima volta, una riforma della scuola. Del resto, se questa è così inaccettabile, un simile esito sarebbe normale.

Ma deve essere ben chiaro chi non la vuole. Il ricorso alla sfiducia oscura questo punto, tende a sottrarre ognuno alle conseguenze dei suoi atti. Qui però si vede una singolare mancanza di coraggio da parte della “sinistra Pd”.

In fondo, la politica scolastica è un punto qualificante dell’azione di questo governo. Quindi, non è una forzatura porre la fiducia: se c’è un’opposizione nella maggioranza stessa su un punto qualificante dell’azione di governo, questo può chiedere la conferma del suo programma, cioè il voto di fiducia. Se l’opposizione interna ritiene che tale riforma sia irricevibile, questo, tenuto conto anche dei conflitti precedenti su Jobs act, legge elettorale e riforma costituzionale, dovrebbe portarla a dichiarare apertamente che non sostiene più l’azione di governo.

Che la “sinistra Pd” abbia il coraggio di far cadere il governo, invece di fare opposizione senza costrutto. Quindi la fiducia non è una forzatura. È però un errore politico. Che la si voti liberamente, questa riforma, e che si veda chi la ferma.

Ma, si dirà, c’è la questione delle assunzioni. La “sinistra Pd”, le opposizioni “di sinistra” (Sel, M5S) e i sindacati chiedono le assunzioni comunque, e definiscono un “ricatto” il rifiuto del governo di separarle dal resto del progetto. Ora, queste posizioni non sono per niente di sinistra. Se si assumessero centomila precari (anzi, alcune di queste forze vorrebbero assumerne ancora di più, 130mila, 150mila) senza modificare in niente l’organizzazione della scuola, cioè senza istituire un nuovo organico dell’autonomia che crei nuovi posti, la metà di questi precari semplicemente non avrebbe un posto.

I posti vacanti e disponibili sono circa cinquantamila, nella situazione attuale della scuola italiana. Solo questi potrebbero essere assunti, con un provvedimento ad hoc, come ha osservato Max Bruschi. Se si vuole invece risolvere il problema del precariato, e fare immissioni in ruolo molto più numerose, bisogna rendere più flessibile l’organico e creare nuovi posti. Non è quindi possibile farle tutte senza la riforma.

A meno di sovradimensionare l’organico solo per fare una sanatoria, bloccando così per uno o due decenni il reclutamento di nuovi docenti, e quindi tagliando le gambe ai laureati più giovani e impedendo il ricambio generazionale. Cioè applicando la logora politica assistenziale di ascendenza democristiana, che serve solo a dare posti di lavoro e a ottenere consenso elettorale, ma sfascia il servizio pubblico, in questo caso la scuola. Valutate voi se questa è una politica progressista e di sinistra.

Non è quindi un ricatto dire che se non si fa la riforma non si fanno le assunzioni. Queste non possono essere fatte senza una riorganizzazione che crei l’organico dell’autonomia. Se c’è disaccordo su tale riorganizzazione, è normale che tutto si fermi. Si dirà: ma se il governo avesse accettato di eliminare i punti più contestati, cioè gli incarichi triennali e il potere dato ai presidi nella valutazione dei docenti, si sarebbe fatto l’organico dell’autonomia subito, e così le assunzioni.

Ma questo non è un argomento: il governo ha una linea politica, vuole una certa riforma; le opposizioni, interne ed esterne, contrastano questa linea. È normale che ci si scontri, e che, se il governo perde, la riforma si fermi. Fino a prova contraria non sono le opposizioni a governare. Al di là del giudizio di merito, in questa dinamica non c’è nessuna forzatura. Le opposizioni siano coerenti: ritirare il disegno di legge significa non fare le assunzioni adesso.

Il governo ha comunicato con il mondo della scuola a distanza, senza un confronto diretto con associazioni, docenti, sindacati

Perché si è arrivati a questo scontro frontale? Perché il governo ha fatto troppi errori. Nel metodo e nella sostanza.

Nel metodo. La “seconda versione” della Buona scuola è stata presentata a marzo, dopo una battuta d’arresto. Introduceva novità sostanziali rispetto alla prima presentata a settembre: l’organico funzionale dell’autonomia, gli incarichi triennali dei docenti, un bonus di valorizzazione del merito assegnato direttamente dal preside.

Tutte queste novità sono state presentate per essere votate in parlamento con tempi molto stretti. Diversamente dalla “prima versione”, non è stato dato il tempo per discutere queste novità, analizzarle, proporre modelli alternativi. A questo si aggiunge il grave errore di avere comunicato con il mondo della scuola a distanza, senza un confronto diretto con associazioni, docenti, sindacati, ma solo attraverso dichiarazioni all’opinione pubblica mediate spesso da stereotipi ideologici. Soprattutto il rifiuto ostinato di dialogare con i sindacati ha reso il terreno impraticabile.

Nella sostanza. Il governo, con questa riforma, sia nella prima sia nella seconda versione, ha affrontato tre problemi reali della scuola italiana. Al primo ha dato una risposta accettabile, al secondo e al terzo ha dato invece risposte sbagliate e improvvisate.

Bisognerebbe pensare a forme di valutazione che non siano interamente nelle mani dei dirigenti

Il primo problema è quello dell’assorbimento del precariato e del reclutamento dei docenti. Per eliminare il precariato, il governo ha scelto di chiudere le Graduatorie a esaurimento (Gae) e di mettere a concorso tutti gli altri posti coperti da supplenze annuali (cioè i posti che non sono coperti dalle Gae).

Questa scelta ha un aspetto discutibile, cioè la sanatoria degli iscritti nelle Gae. La scuola italiana ha bisogno di un reclutamento normale e selettivo, fondato su concorsi regolari. Tuttavia, questa sanatoria si rende indispensabile per ragioni giuridiche, perché le Gae danno diritto al posto di ruolo. Perciò se non vengono chiuse, restano lì finché tutto quel personale non è collocato.

Quindi è giustificato un provvedimento di emergenza che le svuoti, assumendone tutti gli iscritti, e contemporaneamente faccia partire un concorso per assumere gli altri precari che non sono nelle Gae. Così da proseguire normalmente con i concorsi.

Data l’emergenza della situazione, è forse l’unica soluzione praticabile. Fare solo i concorsi rischia di rendere eterno il problema delle Gae. Assumere tutti quelli che lavorano su supplenze annuali da più di 36 mesi lascia sempre aperte le Gae, e crea un conflitto tra quelli che hanno più o meno anzianità di servizio, ma hanno esattamente la stessa condizione giuridica, cioè dovrebbero essere assunti per concorso.

Assumere tutti, cioè Gae e non Gae, come già detto sopra, significa assoggettare il buon funzionamento della scuola alle esigenze di questa sanatoria, e bloccarne l’accesso ai giovani docenti per almeno un decennio, se non due.

Il secondo problema è quello della valutazione e della carriera dei docenti. La prima versione della Buona scuola proponeva un sistema di riconoscimento del merito fondato sull’abolizione degli scatti di anzianità e sull’introduzione di scatti di merito attribuibili solo al 66 per cento dei docenti. In sostanza, si fermava la progressione retributiva di un terzo del corpo docenti, per legare invece quella degli altri due terzi al merito. Inoltre si introduceva la figura di un “docente mentor”, quindi una sorta di abbozzo di carriera.

Questa proposta era inaccettabile, perché fondata su un gioco a somma zero che toglieva ad alcuni per dare ad altri. Quindi è stata abbandonata. A febbraio si parlava di un modello che combinava, per tutti, l’avanzamento retributivo per anzianità e quello per merito. Sarebbe stata una soluzione molto più saggia. Ma è scomparsa del tutto nella seconda versione della Buona scuola, quella presentata a marzo e ora in votazione.

Qui, come è noto, è previsto solo un bonus per la valorizzazione del merito, per il quale sono stati stanziati 200 milioni; tale bonus è assegnato dal dirigente scolastico, sulla base di criteri definiti dal Comitato di valutazione. Tutto si riduce a questa soluzione vaga e approssimativa.

Dare questo potere arbitrario al dirigente non risolve il problema della valutazione dei docenti, perché non ci sono procedure chiare, né criteri, e soprattutto non è garantita nessuna omogeneità a livello nazionale. Ogni scuola andrà per conto suo.

Entrambe le soluzioni proposte sono quindi inadeguate, e questo giustifica ampiamente le opposizioni.

Le soluzioni sostenibili sono altre: o un avanzamento retributivo in parte per anzianità e in parte per merito, o una carriera dei docenti articolata in più livelli accessibili per concorso. Nel primo caso, la valutazione serve ad assegnare la retribuzione per merito; nel secondo caso, serve a formare il curriculum del docente, che avrà un peso nei concorsi per i passaggi di livello. In entrambi i casi, bisognerebbe pensare a forme di valutazione che non siano interamente nelle mani dei dirigenti. Questi dovrebbero avere un ruolo, certo, ma non l’ultima parola. Probabilmente non sarebbe male un sistema con visite ispettive esterne.

Il sistema degli incarichi triennali è stato pensato anche per “mettere sotto pressione” i docenti, inserendoli in una sorta di competizione per ottenere i posti migliori

Il terzo problema è l’autonomia scolastica e la flessibilità nella attribuzione degli organici. Le scuole italiane soffrono di una rigidità enorme, su questo fronte.

La corrispondenza tra numero delle classi e numero dei docenti assegnati alle scuole, sulla base di cattedre di 18 ore, provoca tutti i problemi che conosciamo: gli spezzoni di cattedre, l’instabilità dei docenti ultimi in graduatoria o precari, la distinzione tra organico di diritto e di fatto, eccetera.

Questi problemi, trascurati dalla prima versione della Buona scuola, sono invece stati affrontati dalla seconda versione con l’idea di un organico funzionale dell’autonomia che dà più flessibilità alle scuole, perché attribuisce una quota di organico come “potenziamento”, quindi senza stabilire una proporzione rigida con il numero di classi.

Certo, questa soluzione è stata trovata per collocare il personale immesso con il piano straordinario di assunzioni. Tuttavia, introduce un modello di organico più flessibile in generale, che permette alle scuole di avere più autonomia. Fin qui, bene. I problemi sono nati dal fatto che al personale dell’organico “di potenziamento” è attribuita una titolarità non di sede ma territoriale.

A partire dagli ambiti territoriali, i dirigenti scelgono i docenti, proponendo loro degli incarichi triennali. Questa soluzione sarebbe stata accettabile se fosse stata pensata come una condizione transitoria, in cui si trovano solo i neoimmessi in ruolo, per un certo periodo, alla fine del quale acquisiscono la titolarità di sede. Una sorta di periodo iniziale.

Questo permetterebbe di avere la flessibilità desiderata nella costituzione degli organici, ma allo stesso tempo non renderebbe precaria la condizione dei docenti di ruolo, con gli incarichi triennali, in quanto questi riguarderebbero solo un periodo iniziale della carriera lavorativa. Invece il disegno di legge mira a universalizzare questo modello, perché lo applica da subito anche ai soprannumerari e a chi fa domanda di trasferimento.

Si capisce che l’intento è di adottare in generale un sistema in cui le scuole scelgono il loro personale. Ma se è così, allora sarebbe necessario discutere e analizzare a lungo il modello proposto, perché è un vero rivoluzionamento nella scuola italiana. Inoltre, sarebbe meglio un sistema più semplice come la chiamata diretta, non questo ibrido che crea precarietà in uscita a causa della durata triennale degli incarichi. Con la chiamata diretta, o qualcosa di simile, i contratti sarebbero a tempo indeterminato.

Infine, il governo ha indebitamente caricato questo problema di altre finalità: il sistema degli incarichi triennali è stato pensato anche per “mettere sotto pressione” i docenti, inserendoli in una sorta di competizione per ottenere i posti migliori. Ma questa è una gravissima distorsione: la valutazione dei docenti e gli incentivi per migliorare la loro attività sono problemi da trattare in modo ben diverso, separandoli dalla questione degli organici e dell’autonomia.

Se questo progetto si ferma, la scuola italiana rischia di perdere un’altra occasione, come è successo con la riforma Berlinguer del 2000

In conclusione, a parte il nodo delle assunzioni, il progetto di riforma fornisce risposte sbagliate, frutto di improvvisazione e pregiudizi ideologici (una visione competitiva della meritocrazia), a problemi reali e urgenti della scuola italiana.

Quindi che fare? Fermarlo, e ridiscutere questi problemi cercando soluzioni migliori? O approvarlo? Nonostante tutti questi limiti, io credo che sia meglio approvarlo.

Se questo progetto si ferma, la scuola italiana rischia di perdere un’altra occasione, come è successo con la riforma Berlinguer del 2000. Se il disegno di legge fosse approvato, per la prima volta si darebbe una risposta al problema della valutazione e a quello degli organici.

Le risposte saranno difettose, ma almeno si comincia. Poi si potranno fare correttivi, si potranno introdurre nuovi modelli. Ma almeno, dopo anni, la scuola italiana comincerebbe a muoversi e potrebbe liberarsi, tra l’altro, del problema del precariato storico.

Una bocciatura di questa riforma, invece, porterebbe probabilmente a uno stallo per molti anni. Le proteste di questi mesi avevano molte buone ragioni, ho cercato di mostrarlo rapidamente anche qui.

Ma hanno rivelato anche una grande paura del cambiamento da parte dei docenti italiani, una forte chiusura nei confronti di una qualsiasi valutazione del loro operato, e una tendenza a sottovalutare la gravità dei problemi attuali. Quindi, pur rischiando, per il bene della scuola italiana è meglio che questa riforma parta. Ma con un confronto franco, senza voto di fiducia: chi la vuole fermare se ne deve assumere la responsabilità di fronte al paese, senza nascondersi dietro l’alibi del “ricatto” della fiducia.

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