23 febbraio 2015 17:18

Se mai vi trovaste ad aver bisogno di lasciare un paese in fretta – chi di noi non è mai stato oggetto di una caccia all’uomo al livello nazionale? – il mio consiglio è: non date mai per scontato che un aeroporto con la parola “internazionale” nel nome sia il posto migliore per prendere un volo per Rio de Janeiro. Da uno studio pubblicato di recente sul blog di psicologia Science Of Us è emerso che la parola “internazionale” è un segno di insicurezza: i piccoli aeroporti come il Norwich international airport la usano più di quelli grandi come Heathrow.

Lo psicologo Paul Rozin e i suoi colleghi hanno anche scoperto che è molto più probabile che gli studenti dell’università della Pennsylvania affermino che il loro ateneo fa parte della “Ivy league” rispetto a quelli di Harvard, che come tutti sanno fa parte di quel gruppo di prestigiose università statunitensi. Tra parentesi, lo studio è apparso su Psychological Science, che è esattamente il nome che ci aspetteremmo per una rivista di psicologia, visto che gli psicologi sono paranoicamente preoccupati di non essere considerati veri scienziati.

Tutto questo non fa che confermare la saggezza della battuta di Amleto a proposito della signora che protestava troppo: quando affermiamo energicamente qualcosa spesso significa che, in realtà, ne dubitiamo o pensiamo esattamente il contrario. I freudiani la chiamano “formazione reattiva”: quando ci si vergogna dei propri desideri, un possibile meccanismo di difesa è dichiarare categoricamente che è vero il contrario. Questo è il motivo per cui certi pastori statunitensi diventano aggressivamente omofobi: perché non vogliono ammettere di essere gay. È anche per questo che bisogna sospettare di chiunque continui a ripetere quanto è contento di essere single o sposato, di non avere figli o di averli: sembra che voglia disperatamente convincere se stesso.

Ma c’è anche qualcos’altro in questo atteggiamento, che non si applica solo alle persone che negano l’evidenza: cioè, sui nostri sentimenti riveliamo sempre più di quel che crediamo. Le cose di cui le persone scelgono di parlare o di scrivere, i mestieri e i tipi di rapporti che le attraggono spesso non esprimono le loro preferenze, ma piuttosto indicano quello che più le tormenta. I fondamentalisti atei, per esempio, si lasciano spesso coinvolgere emotivamente nelle questioni religiose (non sarebbero fondamentalisti atei se non fosse così). I medici che decidono di lavorare al pronto soccorso forse cercano qualcosa, o fuggono da qualcosa, ma di sicuro non sono indifferenti alla morte, ai traumi o alla vita umana. Quindi, devo dedurre che anche questa rubrica sia la mappa delle mie fobie, piuttosto che una serie di consigli forniti da chi le ha superate tutte.

“Insegniamo meglio ciò che più abbiamo bisogno di imparare”, diceva in proposito un vecchio saggio hippy come Richard Bach. Quasi per definizione, le cose che abbiamo capito perfettamente ci annoiano, mentre troviamo decisamente più affascinanti le questioni irrisolte. Siamo pubblicità ambulanti dei nostri tormenti interiori. Nessuno si salva, né io né voi, e neanche l’aeroporto internazionale di Norwich che, dopotutto, vuole solo sentirsi un grande aeroporto in un mondo che lo spaventa. Che c’è di male?

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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