15 dicembre 2015 14:18

1. Calcutta, Milano
Un semplice blues per piano elettrico e una voce sforzata che non ci riesce più. Molti parlano di questo giovane, non milanese e capace interprete del disagio, e si riconoscono. L’album Mainstream ha il dono della semplicità, è una zuppa acidula che riscalda, è conforto nel dolore da condividere, è una coperta in più per riscaldarsi, è il soul ai tempi di YouPorn. Che uno si sente un po’ giù e non cerca nemmeno di rappresentarsi il proprio stato d’animo, e va bene così. Si vorrebbe fare spallucce e dire che sembra un canto stonato, ma poi ci prende così.

2. Paper Kites, Turns within me, turns without me
A volte è meglio svicolare agli antipodi e trovare blues in terra straniera. Una band australiana che ha rinchiuso nell’album Twelvefour la convinzione che la fascia oraria tra mezzanotte e le quattro del mattino circa sia il picco creativo per fare musica. Niente di innovativo, solo canzoni solide, pervase da un mood notturno e confidenziale, da suoni morbidi e ritmi suadenti. Sam Bentley è un autore di prima qualità, e la sua band fa pensare a quelle cosine sfumate e sconosciute che una volta tiravano fuori quelli di RaiStereoNotte.

3. Lingalad, L’ombra del gattopardo
Chitarre acustiche e tane d’orsi, foreste e astri, passeggiate nella natura, cronache di bracconieri e leggende. Come uno hobbit nel parco nazionale d’Abruzzo, Giuseppe Festa, romanziere e leader di questa anacronistica formazione, si nutre di bacche, radici, castagne e forse di qualche funghetto magico, e fornisce ballate dal sapore boschivo, con bei passaggi strumentali, seguendo corsie folkegganti tra i faggi, da milanese che si è saputo smarcare anche dall’ombra di Tolkien, incontrando un mondo immaginario piacevole senza stregonerie.

Questa rubrica è stata pubblicata l’11 dicembre 2015 a pagina 100 di Internazionale, con il titolo “Umoracci da milanesi”. Compra questo numero| Abbonati

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