02 novembre 2016 13:00

A pochi giorni dall’elezione di un nuovo presidente degli Stati Uniti, indipendentemente da chi vincerà questa incredibile campagna elettorale, la sola certezza è che dovrà affrontare un mondo caratterizzato dal ritorno della geopolitica, cioè dalla logica fredda e cinica delle rivalità tra potenze. Il fenomeno era già osservabile da qualche anno, ma ha assunto un significato ben diverso con le guerre in Medio Oriente e con l’affermazione di “uomini forti” a capo di molti stati fondamentali.

Questa nuova situazione rappresenta il fallimento dell’epoca di Barack Obama, che aveva cominciato il suo primo mandato con il discorso del Cairo in forma di mano tesa al mondo arabo-musulmano dopo le guerre condotte dal suo predecessore George W. Bush. Obama, tuttavia, termina il suo secondo mandato incapace di poter influire sul corso della mostruosa guerra siriana, in un clima di guerra fredda con la Russia. Il presidente statunitense ha finito per adottare un atteggiamento difensivo – una “potenza di status quo”, secondo la formula degli esperti in geopolitica – in un mondo in movimento.

L’Europa è completamente disorientata: si considerava un modello di costruzione pacifico in un mondo postconflittuale, e vive con grande difficoltà il ritorno dei brutali rapporti di forza alle sue frontiere (Ucraina, Medio Oriente) e le tentazioni autoritarie in alcuni dei suoi stati membri.

Dichiarazione di guerra
Durante il forum dell’Obs, organizzato il 19 e il 20 ottobre a Bruxelles in collaborazione con i giornali belgi Le Soir e De Standaard, un dibattito è stato dedicato proprio al “ritorno della geopolitica” con il professore statunitense Russel Walter Mead, che per primo aveva teorizzato questo concetto sulla rivista Foreign Affairs nel 2014, osservando che “nelle relazioni internazionali sono di ritorno le relazioni di potenza di vecchio tipo”.

Mead ha cercato di spiegare al pubblico belga che anche se il progetto europeo è prima di tutto economico, istituzionale e giuridico, resta comunque – senza che gli europei ne siano consapevoli – un “progetto geopolitico”. Secondo Mead, sono 350 anni che la Russia – con gli zar, con i sovietici e oggi con Vladimir Putin – non accetta di essere estromessa dal “concerto europeo”.

“Il problema è il modo di procedere dei 28: si riuniscono tra di loro, decidono gli argomenti di interesse comune e si aspettano che la Russia si adegui. Ma per Mosca questa è come una dichiarazione di guerra, un’esclusione assoluta della Russia da un processo decisionale di cui dai tempi di Pietro il grande ha sempre fatto parte, in una forma o in un’altra”. La conseguenza, secondo Mead, è che gli europei “senza volerlo e probabilmente senza rendersene conto hanno lanciato una sfida geopolitica alla Russia. E la Russia reagisce”.

Alla metà di ottobre l’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, esperto diplomatico sovietico e poi russo, ha dichiarato a un piccolo gruppo di giornalisti che le tensioni tra Mosca e Washington erano “probabilmente le peggiori dal 1973”, cioè dalla guerra arabo-israeliana in cui le due grandi potenze si erano pericolosamente a uno scontro diretto.

Si tratta di affermazioni non casuali e che risuonano come un avvertimento per Hillary Clinton, la favorita delle elezioni presidenziali statunitensi e che sembra intenzionata a mostrare maggiore fermezza contro Putin. Del resto il diplomatico russo ha rifiutato in modo categorico la proposta della candidata democratica di imporre una no fly zone, un’area di esclusione aerea sopra la Siria che impedirebbe all’aviazione russa di bombardare le zone ribelli di Aleppo. Impossibile finché qui vi saranno gli uomini di Al Qaeda, ha risposto Churkin, accusando gli occidentali di “ipocrisia”.

Il ritorno di ‘uomini forti’ rappresenta una delle principali caratteristiche di questa nuova situazione

Chi arriverà alla Casa Bianca, soprattutto se sarà Hillary Clinton, dovrà definire la sua strategia per questa nuova situazione: rientrare in una logica di nuova guerra fredda con una Russia che, malgrado le sue evidenti debolezze, vuole con tutti i mezzi imporsi come uno dei poli dominanti di questo mondo in ricomposizione; o cercare una ripresa delle relazioni su nuove basi come la stessa Clinton aveva cercato invano di fare al suo arrivo al dipartimento di stato nel 2009. Sulla base del suo temperamento e dei possibili calcoli politici, la candidata democratica sarà molto probabilmente favorevole alla prima opzione.

L’Europa indebolita
Per gli europei questo periodo è ad alto rischio. L’Unione è indebolita dalle sue divisioni interne, dalle sue difficoltà economiche, dal rompicapo della Brexit e soprattutto dall’assenza di una leadership chiara ed evidente. Del resto, il ritorno di “uomini forti” rappresenta una delle principali caratteristiche di questa nuova situazione. Putin ne è il perfetto esempio, con la sua immagine di ex agente dei servizi segreti sovietici mentre affronta gli orsi polari o va a cavallo a petto nudo. Il leader russo è di fatto il modello del “capo” carismatico.

Ma non è l’unico. Anche il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan si è calato senza difficoltà nel modello di leader autoritario, soprattutto dopo il fallimento del tentativo di colpo di stato del 15 luglio. La portata della repressione che colpisce ogni settore, la decisione di ripristinare la pena di morte confermata solo pochi giorni fa, i discorsi revisionisti sulla storia e sulle frontiere che accompagnano la volontà di partecipazione alla battaglia di Mosul in Iraq, sono altrettanti segni di questa deriva autoritaria in cui l’unica cosa che stupisce veramente è la sua portata.

Nello stesso momento il numero uno cinese Xi Jinping è diventato la settimana scorsa “centro” della leadership, cioè l’uomo al quale ognuno deve obbedienza e lealtà, come ha stabilito il plenum del comitato centrale del Partito comunista cinese. Anche in questo caso non si tratta di una sorpresa, visto il giro di vite al quale si assiste da tre anni, cioè da quando Xi Jinping è arrivato al potere, e che ha come vittima principale la società civile cinese.

A Bruxelles François Heisbourg, presidente dell’Istituto internazionale degli studi strategici (Iiss), ha dichiarato che una delle principali sfide del futuro sarà “il modo in cui la Cina parteciperà al banchetto mondiale”, facendo un parallelo poco incoraggiante con l’affermazione della Germania alla fine del diciannovesimo secolo. “Possiamo ancora evitare la catastrofe”, ha comunque detto Heisbourg.

Nel frattempo più vicino a noi possiamo vedere come diversi stati dell’Europa centrale e orientale cedano alle sirene dell‘“uomo forte” e di un autoritarismo più o meno indulgente per attraversare questi periodi di incertezza. I vecchi paesi dell’Unione europea, in particolare quelli fondatori, hanno una responsabilità particolare nel periodo attuale, al quale sono purtroppo poco preparati e capaci di rispondere. Tra le loro debolezze strutturali – come la crisi del paesaggio politico francese – e le loro esitazioni – la Germania continua ad avere il complesso della leadership – rischiano di perdere il contatto con la storia.

Invece di essere una forza propositiva o addirittura un modello per sfuggire alle rivalità di potenza e al ritorno del dispotismo, l’Europa rischia di assumere una posizione passiva o, peggio ancora, di diventare la vittima di queste possibili minacce. Questo significherebbe il fallimento di una generazione politica, il fallimento di un progetto mai arrivato a maturità, un triste paradosso solo a pochi mesi dal sessantesimo anniversario della firma del trattato di Roma.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it