06 dicembre 2014 18:24

Capita di parlare tra scrittori dei progetti futuri, o del libro che si sta scrivendo, o di quello a cui si sta ancora pensando. Intenzioni, soprattutto; volti di personaggi accennati; a volte una città ben definita sullo sfondo; una scena incandescente di cui si sa tutto e da cui deve partire tutto, anche se del resto non si sa ancora nulla. Cose così. E solitamente la chiacchiera va avanti in questo modo, a vanvera ma non troppo, perché mentre si racconta un progetto lo si definisce anche meglio in testa, si capisce cosa va tenuto e cosa no.

Va avanti così, però, se il progetto di cui si sta parlando è un romanzo. Come se fosse superfluo aggiungere che si sta scrivendo un romanzo; perché se uno è concentrato su un libro, se si è in fase di scrittura, se si sta lavorando su quella scena incandescente, su quei personaggi appena accennati, su quella città che fa da sfondo; se insomma sto scrivendo una storia, che bisogno c’è di aggiungere che si tratta di un romanzo?

Nessuno. È scontato.

Non è abbastanza scontato – e stiamo parlando sempre di narrativa – se quello a cui si sta lavorando non è un romanzo; e allora, lo scrittore stesso mette le mani avanti, avvertendo il bisogno di aggiungere: però è un libro di racconti.

Dino Buzzati nella casa di Milano, senza data. (Walter Mori, Mondadori Portfolio)

È un bisogno fastidioso, segreto, che provoca una specie di spasimo a metà tra l’insofferenza e l’orgoglio, immediatamente frustrato da tutto il peso che quel però si porta appresso. Come se il però dovesse giustificare una colpa condivisa, la cui origine è ingarbugliata nelle leggi del mercato.

I racconti non si vendono. E allora, quando il libro è scritto, finito, definito, pronto, non sarà più solo lo scrittore a mettere le mani avanti ma anche l’editore; persino quello coraggioso che tutto sommato ha deciso di pubblicare un libro, nonostante sia di racconti.

I libri di racconti in Italia, infatti, si pubblicano. E da quello che dice The Telegraph, la short story è tornata a far parlare di sé un po’ ovunque, innescando una nuova forma di attenzione sulla forma breve attraverso nuovi premi letterari, spazi dedicati o collane specifiche; soprattutto da quando autrici come Alice Munro e Lydia Davis – pure scrittrici di racconti – hanno vinto nel 2013, rispettivamente, il Nobel e il Man Booker International Prize.

In Italia abbiamo una tradizione di autori di scritture brevi autorevole, una tradizione forte, che, in qualche modo, continua a imporsi sul presente con un’attenzione a volte fin troppo declamatoria: come se solo gli scrittori morti, quelli che hanno già l’aureola e che dall’alto dello scaffale sono più rassicuranti, meno giocherelloni, possano sopravvivere con un libro di racconti.

Sono del 2014, per esempio, le nuove edizioni dei racconti di Ennio Flaiano, Il gioco e il massacro edito da Adelphi; e l’antologia pubblicata da poco da Einaudi Ranocchi sulla luna, curata da Ernesto Ferrero, che raccoglie alcuni racconti di Primo Levi dedicati al ruolo che gli esseri umani ricoprono nel mondo non in quanto umani, ma in quanto animali.

Uno potrebbe pensare che a un certo punto, la nostra tradizione letteraria di scritture brevi debba aver subito un cortocircuito, e nel passaggio osmotico che dovrebbe avvenire naturalmente tra il passato e il presente si sia inceppato qualcosa. Mentre negli Stati Uniti, soprattutto, la tradizione si è rinnovata, si è consolidata, attraverso un percorso di attenzione e cura che si svincola dalla dicotomia tutta provinciale romanzo versus racconto, in Italia questo esercizio di cura e di attenzione verso questa forma letteraria si è lentamente perduto.

Basta pensare che lo Strega, il nostro maggiore premio letterario – maggiore in termini di visibilità – non premia un libro di racconti dal 1958, quando incoronò Dino Buzzati con I sessanta racconti (nel 1952 l’aveva vinto Alberto Moravia con I Racconti e nel 1956 Giorgio Bassani con Cinque storie ferraresi).

Vuoi vincere un premio con un libro di racconti? Devi partecipare a un premio dedicato esclusivamente ai racconti. Come il Premio Chiara o il Settembrini. Anche se, a quanto stimano gli editori, in termini di vendita non conta granché.

Giulio Questi, che purtroppo ci ha lasciati pochissimi giorni fa, ha fatto in tempo ad aggiudicarsi la ventiseiesima edizione del Premio Chiara con il suo esordio letterario da novantenne, Uomini e comandanti, Einaudi. È una raccolta di quindici racconti il cui centro è l’esperienza che l’autore ha compiuto nella Resistenza, anche se il tratto narrativo affronta l’argomento con una particolarissima, intelligente ferocia, spogliato da ogni retorica di sorta.

La cinquantaduesima edizione del Premio Settembrini l’ha vinta invece Andrea Bajani con il volume La vita non è in ordine alfabetico, sempre Einaudi. Una specie di sillabario alla Goffredo Parise, in cui si susseguono, come minuscole perle, pezzetti di vita qualunque che vanno a formare un intero alfabeto di significazione più grande, più complesso.

La verità è che i racconti esistono da sempre, anzi forse rappresentano una delle forme di affabulazione più antiche, anche del romanzo

Folgoranti, dai toni chiaroscuri, sono pure i racconti di Davide Barilli della raccolta La nascita del Che, pubblicata da Aragno (finalista al Premio Chiara 2014), che ci porta, una volta tanto, fuori dal continente, per approdare in una Cuba desolatissima e densa, senza un solo briciolo di compiaciuto folklore che ne svilisca la forza espressiva.

Più che veri e propri racconti, sono lampi immaginifici dall’invenzione filosofica, schegge dalla narrazione immediata, gli ultimi racconti pubblicati da Quodlibet di Luigi Malerba, Consigli inutili. Una prosa diaristica in cui l’autore, con il piglio cinico e intelligente del simpaticone, ci consiglia come fare il fango, come coltivare le querce, o come fabbricare un’ombra con il tono poetico di una burla che sa tanto di verità: “Solo le ombre dei morti comunicano fra loro, non quelle dei vivi”.

Una forma, questa, che piacerebbe molto al Telegraph, che senza dubbio la ascriverebbe alle dinamiche frenetiche dei nostri giorni: al bisogno di rapidità dettato da smartphone e tablet, all’approccio fulmineo della narrativa da centoquaranta caratteri dei nostri tempi. Come se il racconto, insomma, tornasse di moda perché adesso abbiamo meno tempo per leggere e un e-reader tra una fermata e l’altra della metro.

Ma la verità è che i racconti – che siano di stampo classico o il campo più naturale per gli esperimenti più arditi – esistono da sempre, anzi forse rappresentano una delle forme di affabulazione più antiche, anche del romanzo. Basta pensare, per non andare troppo lontano, al patrimonio stilistico che ci ha lasciato Giorgio Manganelli con il suo Centuria, per esempio: un catalogo di microstorie a metà strada tra visionarietà e realismo. O al ritmo sincopato e teso che caratterizza i racconti di Dino Buzzati. O all’immaginazione straniante delle raccolte di Tommaso Landolfi che – per dirla alla Calvino – sul lettore ha l’effetto di una carezza contropelo.

Innervanti in una forma più tipica del racconto – in termini di lunghezza e struttura - più legati al mondo della cronaca come certe prose brevi di Ennio Flaiano, o, quantomeno, attenti alla temperatura dei nostri giorni, di recente pubblicazione sono i racconti di Mauro Covacich di La sposa, Bompiani. In Covacich si riconosce una vena novellistica alimentata dall’intreccio di cronaca e autobiografia, che setaccia gli aspetti più cruciali delle esistenze contemporanee, messi al servizio della narrazione: la sterilità fisica e spirituale dei nostri tempi, una pericolosa, latente violenza che spinge un uomo a vivere con i lupi, una quotidianità che ha tutta l’aria di sfiorare ogni giorno lo straordinario.

Altrettanto ingarbugliati con la desolazione della vita moderna, aggrappati a una società isterica, sono i personaggi di Giusi Marchetta della raccolta Dai un bacio a chi vuoi tu, che Terre di Mezzo ha ristampato in una nuova edizione con tre racconti inediti. Se nella letteratura ai tempi di Heinrich Böll le macerie appartenevano a un corpo collettivo da riabilitare, nei racconti di adesso, pare, le macerie sono gli individui stessi, e sarebbe una catastrofe generazionale se non esistessero gli altri attraverso cui spiare se stessi e trovare i mezzi per sopravvivere.

Ma forse questo può accadere perché i racconti sono adatti a raccogliere le persone; come certi amici sinceri e un po’ cattivi, ci dicono come siamo senza troppe parole. Questo aspetto così immediato tipico della forma breve, proprio Giusi Marchetta lo ha colto creando il tumblr Un Racconto: una specie di guida che ci racconta i racconti, indicandoci una bella storia in un paio di righe. O in una forma centrata più sul biografico, tutto al femminile, nello spazio che Violetta Bellocchio ha creato con Abbiamo le prove.

Andrea Bajani nella casa di Torino, 2008. (Alessandro Albert, Getty Images)

Che cosa sono veramente i racconti, nemmeno Julio Cortázar (uno dei più grandi scrittori di short story) lo sa bene; e per fortuna. Nei suoi numerosi saggi, le sole cose che gli vengono in mente per spiegarne la struttura e individuarne delle caratteristiche costanti sono: l’intensità e la tensione. Quella capacità di ridurre all’osso l’azione, senza abbellimenti superflui o digressioni, che rende, per esempio, Gli uccisori di Ernest Hemingway una prosa intensissima che scorre sul filo di lana, impigliando il lettore fino all’ultima parola.

Ma può anche accadere l’esatto contrario: è tipico di alcuni racconti di Katherine Mansfield o della nostra Anna Maria Ortese, lavorare di accumulo, con una prosa tesa e sospesa in cui l’azione, ridotta al minimo, serve solo per far avvicinare lentamente il lettore al narrato: il fatto in sé non ha tanto importanza quanto i meccanismi che l’hanno provocato e le conseguenze che innesca. Ecco, a proposito di intensità e tensione, mi viene in mente l’ultima, recentissima raccolta di racconti di Luca Ricci, Fantasmi dell’aldiquà, pubblicata da La scuola di Pitagora nella collana Narrazioni – dedita esclusivamente alle forme brevi.

Un’intera raccolta di piccolissime storie di coppia (ecco di nuovo Manganelli), in cui l’andamento e il registro scorrono come un fiume pacato, costellato da piccoli vortici acquosi che sono solo il preludio a una improvvisa cascata ripidissima. Come in Amici immaginari o in Il piede nel letto, in cui l’accumulo delle micro azioni e dei gesti dei protagonisti serve a coagulare una tensione silente che si riverserà di botto tutta alla fine. Nei suoi fantasmi, Ricci – con un pizzico di Maupassant – condensa una certa tradizione italiana della scrittura breve, vivificandola in narrazioni sferiche, cioè geometricamente chiuse con continui lampi e folgorazioni che spingono il lettore a spostarsi verso un fuori.

E se fosse questa la cosa che i racconti devono fare? Dal loro cerchio perfetto e chiuso, costringere chi legge a cercare un altrove, un varco che si apra sconfinato su tutto ciò che il racconto non dicendo, dice.

Come afferma Paolo Cognetti nel suo ultimo libro dedicato alla forma racconto, A pesca nelle pozze più profonde, Minimum fax, “il racconto fa vedere l’invisibile attraverso il poco che si vede”; e non è un caso che quasi tutte queste raccolte, al loro interno, contengano almeno un fantasma o una presenza occulta indefinibile.

Ecco, in Italia i racconti esistono, vengono pubblicati. Solo che come la nebbia di Totò e Peppino, ci sono ma non si vedono; o, meglio, non si vedono bene.

Non si vedono sugli scaffali della maggior parte delle librerie, non si vedono ai festival, ai premi; non si vedono sui giornali né nei piani promozionali degli editori. Figurarsi se si vedono nelle classifiche, per quello che vale. Spesso, poi, a pubblicarli sono case editrici indipendenti dalla forza troppo esigua per poter imporli sul mercato.

Il problema è che se i racconti non si vedono non si vendono. Sta qui, il cortocircuito con la tradizione: nella difficoltà, se non nell’impossibilità, di condividerla con i lettori; se non mancasse questa occasione di confronto e crescita condivisa, sarebbe forse più facile smontare il pregiudizio che circonda la narrazione breve; magari si riuscirebbe addirittura a costruire tra editori, scrittori e lettori una continuità radicata, fisiologica, vitale, tra il passato, il presente, il futuro di un racconto, tale da rendere un libro di racconti semplicemente un libro, senza il però.

Rossella Milone è una scrittrice. Ha pubblicato il romanzo Poche parole, moltissime cose e la raccolta di racconti La memoria dei vivi, entrambi per Einaudi. Per Laterza ha pubblicato Nella pancia, sulla schiena, tra le mani e per Avagliano la raccolta Prendetevi cura delle bambine. Collabora al Fatto Quotidiano e cura un blog di letteratura su Il Fatto Quotidiano.it. Coordina l’osservatorio sul racconto Cattedrale che debutterà il 9 dicembre.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it