19 luglio 2016 11:50

L’articolo dell’Economist “Insegnare agli insegnanti” aiuta a capire che la scuola, il sistema scolastico di un paese, è un’organizzazione complessa. Per intenderla o modificarla bisogna tenere conto delle sue componenti essenziali: quella di chi sta studiando, quella di chi insegna, quella di chi si preoccupa di migliorare le interazioni tra le prime due. Ciascuna è in sé profondamente eterogenea. A prima vista ci si offre una galleria di individualità diverse pronte per le istantanee, le cronache, le realistiche invenzioni di Giovannino Mosca o del primo Starnone o di Raimo, del primo Sciascia o di Mastronardi o di Mastrocola.

Si dirà che così appare anche una vettura della metropolitana in ore di punta. Vero, con una differenza: i viaggiatori salgono e scendono, ma di norma non fanno cambiare la linea, i binari, le stazioni, subiscono il funzionamento o le disfunzioni della metro, non incidono in modo determinante su di esse (a meno che non si divertano a tirare il segnale d’allarme come il buon soldato Sc’vèik). Diversamente dai viaggiatori in metropolitana, le persone che stanno nella scuola con tutte le loro diversità fanno la scuola.

Chi mette mano seriamente a un aspetto del sistema, per capirci qualcosa, per studiarlo o per modificarlo, prima o poi (meglio prima, se è un decisore politico) si vede costretto a tenere conto dei legami con altri aspetti. Lo storico Giuseppe Ricuperati ha dato lavori esemplari e illuminanti perché alla scuola ha guardato nella prospettiva di una complessiva storia dell’Italia. Gli economisti Robert Barro e Jong-Wha Lee avevano cominciato a studiare le correlazioni tra crescita della scolarità e crescita economica nei vari paesi dal 1950 fino ai giorni nostri e hanno prodotto un complessivo studio dell’evoluzione dei rapporti tra lo sviluppo della scolarità e l’intera vita sociale e politica degli stessi paesi a partire dalla fine dell’ottocento (Education Matters 2015).

Ogni soldo speso nella scuola ha un sicuro ritorno sulla crescita del prodotto interno lordo dei paesi

Il sarchiapone del sistema scolastico si muove con inevitabile lentezza e i numeri dell’oggi si capiscono solo tenendo conto delle serie storiche passate, cioè della storia dei diversi paesi. Negli ultimi anni sono stati acquisiti alcuni punti fermi di portata generale. Primo punto: proprio le ricerche ventennali di Barro e Lee permettono di dire con sicurezza che ogni soldo speso nella scuola ha un sicuro ritorno sulla crescita del prodotto interno lordo dei paesi. La scuola non è una spesa, è un investimento redditizio. Crescono i livelli d’istruzione, cresce il pil.

Secondo punto: non è solo questione di economia e d’investimenti. Anzitutto, per migliorare un sistema scolastico non conta la quantità grezza di denaro investito, ma conta la percentuale che questa quantità ha nella spesa pubblica di un paese. È la percentuale a dirci qual è l’impegno di un governo e di un paese nella scuola. Ma, poi, non è solo questione di economia anche perché la crescita della scolarità è un fattore indispensabile per la tenuta di un sistema democratico. La sola istruzione non è sufficiente, ma è necessaria per realizzare una democrazia sostanziale.

Terzo punto: rilevazioni dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e studi recenti mostrano che investire in dotazioni tecnologiche nelle scuole serve a poco o è perfino dannoso se non ci sono allievi già preparati nelle competenze di base (leggere, scrivere e far di conto) e insegnanti in grado di usare le tecnologie per collegarsi con altri insegnanti, per selezionare materiali adatti a una certa classe e per sviluppare un insegnamento interattivo e cooperativo.

E siamo al quarto punto: l’insegnante. Già remote indagini dell’International association for the evaluation of educational achievement (Iea) lo avevano suggerito dagli anni novanta e John Hattie, direttore del Melbourne education research institute, ha avuto il merito di studiare la questione su una scala statistica di massa. Tra i fattori di successo di un intero sistema scolastico o anche degli alunni di una sola classe quello di gran lunga più importante è la qualità dell’insegnamento. Il bravo o la brava insegnante è il fattore decisivo di una scuola buona. Studiare chi è, che cosa fa, e tradurre l’analisi in progetti di formazione iniziale e di formazione in servizio è più importante del denaro.

I successi d’un professore

L’articolo dell’Economist dà evidenza ad alcune caratteristiche di formazione e di comportamento didattico degli insegnanti che, alla luce dei risultati che ottengono, possiamo ritenere bravi. Ecco un sicuro quinto punto: la capacità di insegnare a studiare in modo produttivo non è una dote innata, ma, come in ogni mestiere, si impara. Si intravedono alcuni tratti del bravo insegnante: conoscenza profonda di ciò che insegna, disponibilità a collaborare con gli altri, a mettersi in discussione, a tenere conto degli scacchi e degli insuccessi per rivedere il modo di stimolare l’apprendimento. Diceva un vecchio professore: se devo bocciare qualcuno, capisco che sto bocciando me stesso.

Interi sistemi scolastici suggeriscono riflessioni: dove l’impegno è quello della massima inclusione, del portare tutte e tutti alla fine dei cicli di istruzione, là gli allievi hanno i più alti punteggi nel confronto internazionale. Succede dove non si boccia, come nella nostra scuola elementare o in Finlandia, in Corea, in Giappone. Il seme gettato da don Lorenzo Milani germina lontano nel mondo.

Questo articolo è stato pubblicato l’8 luglio 2016 a pagina 61 di Internazionale, con il titolo “Buona la scuola se eccelle chi insegna”. Compra questo numero| Abbonati

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