27 marzo 2016 11:09

Se la vita dei genitori dovesse essere misurata in base alla popolarità di un modo di dire, questo sarebbe senza dubbio “come fai sbagli”, vero mantra di una madre oggi. Come fai sbagli è anche il titolo di una fiction di Rai Uno: la prima puntata è andata in onda domenica 20 marzo ed è già campione di share nonché hashtag di successo.

Basata sul format francese Fais pas ci, fais pas ça, è la storia di due famiglie romane, una più liberal, gli Spinelli, che educano i figli all’insegna della fiducia reciproca, l’altra più conservatrice, i Piccardo. Gli uni si oppongono al modello di educazione severa ricevuta, gli altri lo riproducono. I primi si preoccupano che i figli siano “felici”, i secondi, come facevano i nostri genitori, esigono semplicemente che siano “bravi”. Le (apparenti?) differenze tra le due famiglie, vicine di casa, sono evidenti già dai nomi dei figli: Zoe e Diego da una parte; Giulio, Irene e Chiara dall’altra.

Ma è proprio così? Bastano dei nomi un po’ alternativi a fare la differenza? In ogni caso, il risultato non cambia: quando escono i quadri, i figli liceali di entrambe le famiglie hanno tutti tre debiti e decidono di lasciare la scuola per andare a lavorare. Il tema non è nuovo. Ricordate Carnage, il capolavoro di Roman Polanski in cui due coppie di genitori si incontrano e litigano per tutta la durata del film per colpa di un diverbio un po’ violento tra la loro prole?

Il film, del 2011, tratto da una pièce di Yasmina Reza, metteva in luce il grado di follia dell’essere genitori nella nostra società, con un finale che ne era la metafora perfetta: i quattro genitori affranti e immobili nel salotto e i bambini che scorrazzano al parco riappacificati. Tuttavia non stupisce che il tema dell’educazione dei figli e dei dilemmi che ne conseguono conquisti oggi una larga fetta di pubblico – oggi più che mai, verrebbe da dire.

Basta fare un giro su internet per capire che è una vera ossessione collettiva: si moltiplicano in maniera esponenziale i corsi per genitori, i manuali, le “10 dieci regole per crescere figli felici”. In Francia c’è un centro di sostegno in una clinica di Montpellier per aiutare i genitori di figli tirannici. Del resto anche il padre Spinelli della fiction, quello apparentemente più alternativo, di mestiere giornalista web squattrinato, si mette in testa di scrivere un libro: “Manuale di autodifesa per genitori disperati”.

Ma perché questi genitori (in altre parole noi) sono così ossessionati dalla felicità dei figli? Perché empatizzano con l’inadeguatezza, il vuoto esistenziale, le dipendenze dei loro ragazzi? “L’adolescenza è una malattia normale. Il problema riguarda piuttosto gli adulti e la società: se sono abbastanza sani da poterla sopportare”. A dirlo è stato nientemeno che lo psicoanalista inglese Donald Winnicott, quello della “madre sufficientemente buona” e del “falso sé”. Insomma a volte il problema dei figli sono i genitori. Vediamo come e perché.

Come faccio a levare di mano a mio figlio quell’oggetto malefico che è il telefono?

Il 20 marzo al Maxxi di Roma si è svolto Famiglia punto zero, il primo Festival delle famiglie che cambiano, un’intera giornata dedicata a genitori e figli, con attività teatrali e creative pensate per i piccoli e incontri per i grandi su temi abbastanza roventi: la multigenitorialità, il rapporto dei ragazzi con il digitale, i nuovi padri, madri e lavoro.

Il festival era affollato, i laboratori per i bambini, nonostante costassero 5 euro, come anche gli incontri, hanno fatto il tutto esaurito. C’erano tanti relatori molto preparati e tante mamme belle un po’ affannate che rincorrevano i figli in quel tempio del contemporaneo che è il museo progettato da Zaha Hadid. Durante una delle conferenze, accanto a me c’era un bambino di sei o sette anni che sembrava ascoltare, in realtà dormiva perfettamente seduto, mentre l’antropologo Francesco Remotti spiegava con particolare accuratezza come il nostro modo di concepire la famiglia sia biocentrico e non sociocentrico come dovrebbe essere, e che la multigenitorialità in alcune società è la norma, da secoli.

Una delle principali preoccupazioni dei genitori di oggi sembra essere, per quel che ho visto al Maxxi, il rapporto con il digitale e l’eventuale “dipendenza” dei figli dai dispositivi elettronici. All’incontro intitolato “Genitori analogici con figli digitali” eravamo in molti, e sentivo che il pubblico era afflitto da un quesito pratico: come faccio a levare di mano a mio figlio quell’oggetto malefico che è il telefono che lo distrae dallo studio? Questa è la domanda che nessuno osa fare, anche perché la risposta non c’è.

Tra i relatori c’erano Giovanni Boccia Artieri, sociologo dei nuovi media, e Franco Lorenzoni, maestro elementare. I due hanno un’opinione agli antipodi sul rapporto con la tecnologia, ma in realtà convergono nel pensare che “l’importante è che i ragazzi abbiano qualcuno con cui parlare” o “qualcuno che gli faccia da specchio”. Essenziale per entrambi è introdurre elementi di dissenso nella frequentazione dei social network, ovvero evitare che i ragazzi seguano soltanto “amici” che la pensano come loro e fare in modo che escano un po’ dai loro microcosmi digitali (cosa che dovremmo fare anche noi adulti!).

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Entrambi sono molto critici nei confronti dell’eccessiva protezione e controllo dei genitori sugli e attraverso gli strumenti digitali. Un fenomeno impressionante, almeno negli Stati Uniti: secondo uno studio del Pew reaserch center, il 61 per cento dei genitori controlla i siti che i figli visitano, il 60 per cento controlla i loro profili sui social network. Il 39 per cento usa filtri che limitano la navigazione e il 16 per cento usa delle tecnologie per localizzare i figli. Il 65 per cento per cento toglie il telefono ai figli come punizione.

Boccia Artieri è convinto che la sicurezza online sia importante, ma che “oggi dobbiamo avere un atteggiamento più radicale e dobbiamo insegnare ai ragazzi a gestire la loro immagine pubblica, che può diventare influente e attrarre l’attenzione su temi anche molto importanti”. Boccia Artieri sarà al Festival del Giornalismo di Perugia il 9-10 aprile, a parlare proprio di questi temi.

Al Sert di Genova sono esauriti i 72 posti a disposizione in un gruppo di aiuto per i genitori, questa volta per aiutarli ad affrontare la dipendenza dei loro figli da videogiochi e telefonini. Ho la sensazione che il corso non rimarrà l’unico. Il gruppo di ricerca Ippolita, dal 2005 impegnato sulle “tecnologie del dominio” e i loro effetti sociali, organizza già “corsi di autodifesa digitale per genitori” (qui per saperne di più). “I genitori dovrebbero imparare a risolvere prima le proprie dipendenze”, mi dicono quelli di Ippolita, “e in ogni caso non si tratta di vera dipendenza, ma piuttosto di abitudine e assuefazione. Il vero problema è l’atteggiamento degli adulti nei confronti dei minori. Proiettano le loro paure su di loro. Non è tanto ‘ho paura per lui’ ma ‘ho paura di lui’. I genitori tendono a reprimere, punire, controllare, ma non è questo il metodo”, continuano quelli di Ippolita che hanno curato un saggio appena uscito, Anime elettriche.

A differenza che in passato, noi genitori ci immedesimiamo malamente nel nostro ruolo

I genitori, indubbiamente, cercano il confronto e si riuniscono in associazioni come Okkio alla cacca sul web, una sorta di punto di informazione e confronto “a favore dell’educazione digitale dei genitori affinché si possano riprendere il proprio ruolo educativo”. Mica facile riprenderlo quel ruolo educativo. Dopo aver letto la Lettera al padre di Franz Kafka siamo andati tutti un po’ in crisi. Nessuno, compreso Jonathan Franzen, che ne sa qualcosa di vite costruite come “correzioni” di quelle dei padri, vuole riprodurre quello che ha subìto.

“Tu con le tue parole”, scriveva Kafka, “colpivi alla cieca, non avevi compassione per nessuno, non durante, non dopo, in tua presenza si era completamenti indifesi. Ma era così il tuo modo di educare. Hai, credo, la stoffa dell’educatore; a un individuo che ti somigli, attraverso l’educazione, saresti stato molto utile; avrebbe accettato la ragionevolezza di quanto dicevi, non si sarebbe occupato d’altro e avrebbe fatto tranquillamente quel che doveva. Per me bambino invece tutto ciò che mi prescrivevi era addirittura un comandamento divino, non lo dimenticavo più, diventava lo strumento più importante per giudicare il mondo, soprattutto per giudicare te: e in questo senso eri un fallimento completo”.

Ma nel frattempo le cose sono cambiate. C’è stato il ’68, ma prima del ’68 Natalia Ginzburg già scriveva: “I nostri genitori ci assordavano di parole tuonanti; un dialogo non era possibile, perché appena sospettavano d’aver torto ci ordinavano di tacere; battevano il pugno sulla tavola, facendo tremare la stanza. Noi ricordiamo quel gesto, ma non sapremmo imitarlo. Possiamo infuriarci, urlare come lupi; ma in fondo alle nostre urla di lupo c’è un singhiozzo, un rauco belato d’agnello […]. Oggi che il dialogo è diventato possibile fra genitori e figli – possibile benché sempre difficile, sempre carico di prevenzioni reciproche, di reciproche timidezze e inibizioni – è necessario che noi ci riveliamo, in questo dialogo, quali siamo: imperfetti; fiduciosi che loro, questi nostri figli, non ci rassomiglino, che siano più forti e migliori di noi”.

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Secondo lo psicologo dell’età evolutiva Massimo Ammaniti oggi siamo arrivati a una nuova transizione, in cui il rapporto tra genitori e figli è cambiato completamente di segno: “Non sono più soltanto i figli ad aver bisogno della legittimazione dei genitori, ma sono anche i genitori che hanno bisogno delle conferme dei figli”, scrive nel suo ultimo saggio La famiglia adolescente. “A differenza che in passato, noi genitori ci immedesimiamo malamente nel nostro ruolo. È come se il riconoscimento e il valore stesso del ruolo genitoriale dipendessero in misura importante dall’approvazione filiale. E questo provoca un rapporto talvolta rovesciato: alimentiamo, nei casi più complicati, un rapporto di sudditanza nei confronti dei nostri figli”. Non ce lo immaginiamo proprio il padre di Kafka che cerca l’approvazione del figlio Franz, il quale, come è noto, non si sposò mai con la donna che amava perché il padre non approvava.

Sì, è difficile fare i genitori oggi, ma è una liberazione rispetto al passato. Maggie Nelson è una saggista statunitense che ha scritto, secondo me il più bel libro su maternità, libertà, figli, famiglie non tradizionali e chi più ne ha più ne metta, visto che Nelson è omosessuale, sposata con Harry, un transgender, con il quale ha avuto un bambino nato grazie alla fecondazione assistita. Nelson ha condensato tutto in The Argonauts (in uscita per Il Saggiatore il prossimo autunno), un compendio di considerazioni altamente filosofiche, ma anche un racconto di grande semplicità, verbale e corporea, su cosa significa essere genitori.

Di certo le madri della scorsa generazione avevano tutt’altre preoccupazioni

Anche Vittoria Baruffaldi, madre di una bambina di 4 anni e insegnante di filosofia in un liceo di Torino, è brava a mescolare filosofia e maternage (leggete il suo Esercizi di meraviglia). “Il fallimento”, mi dice, “arriva quando ci mettiamo in testa di inseguire dei modelli di riferimento. L’essere madri o l’essere genitori non è un progetto, una vocazione, è la vita. E anche la smania di realizzazione attraverso i figli spesso viene scambiata per felicità. O per la loro felicità. Bisogna imparare a sbagliare”.

La differenza fondamentale con il passato è, secondo Baruffaldi, che oggi immaginiamo il futuro dei nostri figli più a lungo termine: quando sono ancora in fasce immaginiamo che lavoro faranno, se andranno via dall’Italia, se troveranno un lavoro. E questo potrebbe succedere anche per le contingenze economiche non facili in cui ci troviamo.

Di certo le madri della scorsa generazione avevano tutt’altre preoccupazioni. Su tutte, la mamma di Francesco Abate, l’autore di Mia madre e altre catastrofi. Abate mette in scena la sua vera madre, una signora nata nel ‘37, femminista marxista e ipercattolica, una che ha picchiato il figlio con i battipanni l’ultima volta quando lui le ha comunicato che non avrebbe fatto l’università. Opposto letterario di questa madre che fa pochi sconti (“anche sui diritti d’autore”) è il padre del romanzo di Simone Giorgi, L’ultima famiglia felice, la cui insopportabile mitezza e teoria del non-intervento sembrerebbe proprio la causa di tutti i problemi dei figli. Insomma: come fai sbagli.

La verità è che le famiglie felici non esistono. I manuali che insegnano a crescere figli felici sono invece tantissimi. Ma meglio non buttare i soldi. Se proprio dovete farlo, scegliete un libro equilibrato e intelligente come Amarli senza se e senza ma di Alfie Kohn, uno che scrive a partire dalla sua esperienza di padre, consapevole del fatto che “nonostante tutti gli errori commessi”, i suoi due figli “staranno comunque bene per il semplice fatto di amarli”.

Avvertenza per i genitori: questo è un libro che si scaglia contro il comportamentismo, molto di moda nei manuali di autoaiuto americani, e che preferisce altri metodi alle punizioni, ma qui “amore incondizionato” non è affatto sinonimo di “facciamo fare ai figli quello che vogliono”. Semmai Kohn tenta di aiutare noi genitori “disperati” nel difficile compito di “parlare” ai nostri figli. Perché, come diceva, Piaget “quanto più prezioso di tutte le regole del mondo è un briciolo di umanità”.

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