09 luglio 2015 17:28

La Germania non è niente se non un’idea nella testa di Mengis e dei suoi amici. “Germany, we go to Germany”, ripetono nella stessa maniera. Tutti lo stesso tono: serio, determinato e curioso, mentre aspettano il treno notturno che li porterà a Bolzano. Non sanno bene com’è la Germania, come funziona la domanda d’asilo, che leggi troveranno ad aspettarli, dove dormiranno. Eppure il loro obiettivo è un chiodo fisso.

In una sera qualunque di giugno alla stazione Termini di Roma le banchine sono affollate. Si parte per Bolzano, si viaggia tutta la notte. Bolzano, Brennero e da lì con il treno si prova ad andare a Monaco, passando dall’Austria. Qualcuno ha già il biglietto per la Germania in mano e chiede se è proprio questo il treno che porta al nord.

Mengis ha una felpa grigia, il cappuccio alzato, due appariscenti occhiali a specchio che gli coprono quasi tutto il volto scavato di ragazzo. “Non mi fare foto che mi hanno detto che la polizia ci identifica dalle pupille”, i ragazzi non parlano con nessuno se non con i loro connazionali e credono a tutto quello che gli viene raccontato, così nascono leggende che si ingigantiscono mentre passano di bocca in bocca. Qualche fratello o cugino eritreo residente a Roma è venuto ad accompagnare i ragazzi, ma la maggior parte di loro viaggia sola, senza parenti o genitori.

Secondo l’associazione Save the Children, in Italia dal 1 gennaio al 30 aprile 2015 sono arrivati 604 minori non accompagnati di nazionalità eritrea. Molti di loro si sono sottratti alla rete dei centri di prima accoglienza allestiti in Italia. Il 31 marzo 12.629 minori non accompagnati risultavano registrati nei centri italiani, di questi 3.554 erano irreperibili. In molti casi si tratta dei minori che scappano dai centri per raggiungere i paesi del Nordeuropa. I dati sono sottostimati, spiega Save the Children, perché molti ragazzi non si rivolgono alla rete ufficiale di accoglienza oppure si dichiarano maggiorenni.

Anche Mengis e i suoi amici che avranno sedici anni dicono di averne diciotto. Mengis stava nell’accampamento di Ponte Mammolo, poi sono arrivate le ruspe. “Avevamo un campo a Roma, ma è venuta la polizia con quelle macchine grandi e noi siamo scappati”, racconta. L’11 maggio, infatti, il comune di Roma ha sgomberato l’accampamento abusivo di Ponte Mammolo, un rifugio temporaneo per migranti in transito dalla Sicilia verso il Nordeuropa, e così centinaia di persone, tra cui decine di minori, si sono ritrovate senza un tetto.

Mengis si è messo a dormire per strada alla stazione Tiburtina, poi un’associazione gli ha trovato un alloggio in un convento di suore a Santa Maria Maggiore. Il ragazzino eritreo mi mostra una foto di una chiesa romanica con un chiostro lussureggiante di vegetazione e rose, mi fa vedere la foto di suor Antonietta, una suora messicana, e di Bilal, il suo amico più caro, il suo compagno di scuola. Bilal è rimasto a Roma, nel convento con suor Antonietta, perché non aveva i soldi per seguirlo in Germania.

Bilal e Mengis sono partiti dallo stesso paese, Shambuko, una piccola cittadina eritrea a pochi chilometri dal confine con l’Etiopia. A questo viaggio ci hanno pensato per mesi, forse per anni. “Non pensavamo ad altro”, racconta Mengis.

Rischiavano il servizio militare a tempo indeterminato che è stato introdotto nel 2002 dal regime di Isaias Afewerki, rischiavano di non poter lavorare e di non poter essere utili alle loro famiglie. “In Eritrea ce la fa solo chi ha qualche parente all’estero”, mi raccontano. È per questo che sono partiti. E anche perché hanno 16 anni, non hanno paura di niente. Mengis ha lasciato tutta la sua famiglia. “Non li sento da quando sono partito. Non ho i soldi per chiamarli”, dice. Ma mentre ne parla capisco che ha paura di chiamare a casa, forse non ha nemmeno detto che partiva. Alla sua fidanzata invece l’ha detto. “Quando arrivo in Germania la prima persona che chiamo è lei”, mi dice e ride.

“Devo partire, devo andare. Ma sono come cieco, non guarderò nessuna donna mentre ti aspetto”, canta Andit Okbay, l’idolo di questi ragazzi che ascoltano ininterrottamente le sue canzoni. I loro cellulari sono pieni di questa musica tradizionale che gli ha fatto compagnia durante il viaggio. Okbay è un cantante eritreo, vive a Londra, ce l’ha fatta. E loro sperano di diventare come lui.

Ragazzi eritrei sul treno diretto al Brennero, il 28 maggio 2015. (Stefano Rellandini, Reuters/Contrasto)

Senza documenti il biglietto non vale

Siamo saliti sul treno da pochi minuti e già cominciano le prime difficoltà. Alcuni ragazzi hanno comprato il biglietto per lo scompartimento cuccette, costa di più, ma gli permette di dormire tranquilli, di allungarsi e di stare in un ambiente un po’ più riservato. Appena entrano nelle cuccette arriva il controllore che chiede i documenti. Ma loro non ce li hanno. Il controllore allora dice che per la legge italiana serve identificarsi per stare nello scompartimento cuccette, altrimenti il biglietto non vale. Possono solo andare nelle prime due carrozze del treno, negli scompartimenti con le poltrone. Lì i documenti non servono. I ragazzi non capiscono: che differenza c’è? Perché solo a loro vengono fatti questi problemi? Hanno pagato di più, non vogliono spostarsi. Uno di loro già dorme.

Intanto un signore tedesco sulla sessantina che è capitato nello stesso scompartimento dei ragazzi comincia a brontolare. “Io devo dormire, mi dispiace per loro, ma io domani devo andare a lavorare”, urla in inglese con voce gutturale. Il controllore allora per affermare la sua autorità comincia a urlare più forte contro i ragazzi: “Se non lasciate immediatamente questo scompartimento chiamo la polizia. A Bologna sale la polizia”. Il controllore è anziano e ha un’espressione scavata, severa. Mi guarda con occhi esasperati e dice: “Chiamo la polizia”.

Il signore tedesco sembra più calmo e prova a distendere l’atmosfera: “Mi dispiace davvero per loro, sono così giovani, scappano dalla dittatura, è la prima volta che mi capita di toccare con mano questa realtà di cui ho sentito parlare. Forse dovremmo fare di più”. Parla lentamente, scandisce le parole, ma poi ripassa all’attacco: “Purtroppo io ho bisogno di dormire, starei a sentirvi parlare per ore, ma se non mi addormento subito poi perdo il sonno”.

I ragazzi capiscono che non c’è più niente da fare, si alzano e poi cercano di svegliare Robil che dorme, ignaro della cagnara che lo circonda. Mentre il tedesco ancora borbotta loro spariscono inghiottiti dal treno, si accatastano con gli altri nelle poche poltrone disponibili nelle prime due carrozze del treno, si buttano addosso giacche e maglioni per ritagliarsi un po’ di buio e di privacy.

Mengis non riesce a dormire, se ne va nell’ultima carrozza a guardare dal finestrino la strada ferrata che ci lasciamo alle spalle. Pensa a Bilal che è rimasto a Roma, alla sua fidanzata che ha lasciato in Eritrea. Ha paura della polizia. “Quanti anni hai?”, mi chiede. “Trentaquattro”, rispondo. “Come mia madre”, dice, lo sguardo fisso nell’immenso buio che abbiamo appena attraversato.


Dove sono i buoni quando non sono in stazione?

Arriviamo a Bolzano alle otto, la stazione è avvolta da una nebbiolina grigia e lattiginosa, i monti color muschio circondano la città come una cornice.

I migranti scendono a gruppetti, lentamente. Ai binari vengono presi per mano, letteralmente, da schiere di volontari con tanto di pettorina azzurra e scritte in arabo e in inglese. I volontari hanno tutte le età, e parlano tante lingue. “Good morning, buon giorno”, dice una signora dolcissima mentre porge salviette bagnate alle persone appena scese dal treno.

Arrivano anche i mediatori culturali che invitano a seguire i volontari: la colazione è pronta in una mensa allestita in una saletta della stazione. C’è anche un magazzino per i vestiti e una piccola infermeria. Ci sono delle tabelle con dei disegni per comunicare con i migranti e spiegare il tipo di servizi offerti. I bambini sono i più coccolati e si mettono subito a giocare con le nuove conoscenze. “Ogni giorno arrivano circa cinquanta migranti, qualche mese fa ne arrivavano anche cento, centoventi”, spiega Luca De Marchi, dell’associazione Volontarius.

“La cosa più difficile è conquistare la loro fiducia quando arrivano al binario”, continua. “Hanno attraversato molti blocchi e barriere per arrivare fin qui e non vorremmo che perdessero la speranza”, continua.

L’assistenza ai migranti alla stazione di Bolzano è tutta autogestita, ma funziona come dovrebbe funzionare l’assistenza pubblica. Ci sono medici, mediatori culturali, operatori per l’infanzia. La polizia lascia fare e vigila da lontano. È un servizio di assistenza a tutti gli effetti, completamente finanziato da privati cittadini. “Ci siamo organizzati con dei turni, la gente arriva con la spesa, con i soldi, con i vestiti. Siamo testimoni di un’immensa e spontanea solidarietà”, racconta De Marchi. I migranti dopo aver mangiato ed essersi rifocillati, tornano sui binari, hanno paura di perdere il treno per Monaco, non vogliono essere distratti dal loro obiettivo, di solito sostano alla stazione di Bolzano per qualche ora prima di ripartire per la Germania.

“Cerchiamo di non interferire con il loro progetto, non sta a noi. Cerchiamo di rispondere ai loro bisogni e di infondere un po’ di fiducia”, afferma De Marchi.

Mahari è seduto con Yusuf, sulle panchine di legno della stazione di Bolzano. Ad Adquala, il suo paese d’origine in Eritrea, gioca in una squadra di pallavolo. Vuole andare ad Amsterdam con il suo amico. Ha due sacchetti pieni di cibo che gli hanno dato i volontari italiani: mele, panini, biscotti. “Sono così gentili questi italiani, non ce la faccio più a mangiare”, dice sorridendo. Io penso al colonialismo, ma sorrido lo stesso. Mahari si tocca la pancia per farmi capire che è sazio e mi regala un pacchetto di biscotti.

Di volontari ne abbiamo visti tanti in queste ultime settimane, a Roma, a Milano, in Sicilia. A Bolzano il volontariato è organizzato e ben radicato. Sarà che è una città di confine, sarà che lì sono abituati a parlare tante lingue e a costruire ponti. Tutto il tempo alla stazione di Bolzano penso a una frase scritta qualche giorno fa da Giulio Cavalli nel suo blog: dove sono i buoni quando non sono in stazione? Me la ripeto, perché in fondo mi fa pensare a una maggioranza silenziosa che si ribella a chi sparge odio dalle poltrone dei talk show, che non si sente rappresentata dalla politica, ma che di fatto fa le veci dello stato. Fanno quello che è giusto, e lo fanno bene.

Prima puntata del viaggio da Roma ad Amburgo di un gruppo di giovani eritrei. La seconda puntata è L’ultima frontiera per avere un futuro in Europa, in viaggio con i migranti da Bolzano a Monaco.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it