08 febbraio 2017 11:47

Michael è arrivato in Italia dal Ghana da due anni e ancora non sa se gli verranno concessi i documenti per rimanere, anche se da qualche mese lavora in un’azienda che produce impianti automatizzati e quadri elettrici, e il suo datore di lavoro vorrebbe assumerlo dopo il tirocinio. “Mi trovo molto bene, mi piace il lavoro che faccio”, racconta sorridente Michael, mentre parla del suo viaggio attraverso il deserto del Niger verso la Libia.

“Quando sono partito dal Ghana, nel 2012, pensavo di rimanere a lavorare in Libia. Nel mio paese ero un perseguitato politico e sono dovuto scappare, perché ero un sostenitore del New patriotic party (Npp), il partito che aveva contestato le elezioni nel 2012. In Libia ho avuto esperienze terribili, sono stato arrestato, la Libia è un paese pericoloso”. Indossa una camicia a pois e un giubbotto di pelle nera, il suo italiano ogni tanto s’inceppa, ma con determinazione Michael prova a esprimersi nella lingua che sta studiando, rincorre le parole, poi quando teme di non essere capito passa all’inglese: “Sto studiando l’italiano, mi piace. Ho un sacco di amici a Torino, i ragazzi della cooperativa mi hanno aiutato a entrare nel corso di formazione, poi ho fatto un tirocinio nell’azienda che ora mi vorrebbe assumere”.

Se l’asilo gli fosse negato Michael diventerebbe di nuovo un irregolare

Dopo due anni in Italia e un’autonomia economica conquistata con fatica attraverso un programma di tirocinio attivato dal centro di accoglienza del servizio Sprar in cui è stato accolto, Michael non sa ancora che ne sarà della sua vita. Rischia che gli venga negato l’asilo anche dalla corte d’appello e che il suo datore di lavoro debba ritirare la proposta di assunzione che ha pronta nel cassetto, perché Michael, se l’asilo gli fosse negato definitivamente, diventerebbe di nuovo un irregolare, senza documenti validi per lavorare e per prendere in affitto una casa.

Tornerebbe nel limbo dell’illegalità, diventerebbe uno dei tanti fantasmi creati dal sistema di accoglienza italiano, che da una parte investe sull’integrazione e dall’altra non premia le esperienze positive. “Se l’appello contro la decisione in primo grado del tribunale andasse male perderei il lavoro, perderei la casa, perderei tutto. Ma non tornerei in Ghana, la mia vita è qui, sono venuto per imparare e per lavorare”, dice Michael con fermezza.

La fabbrica della clandestinità
La sua storia è simile a quella di centinaia di richiedenti asilo, che vivono in Italia da anni e che dopo anni di attesa hanno ricevuto una risposta negativa alla richiesta d’asilo, anche se nel frattempo sono riusciti a integrarsi e a trovare un lavoro grazie ai programmi di accoglienza del sistema nazionale Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).

“Purtroppo mi capita sempre più spesso di dover comunicare ai ragazzi che sono da noi che è arrivata una risposta negativa prima dalla commissione territoriale e poi dal tribunale”, spiega Carla Mariani, una delle operatrici della cooperativa Esserci di Torino, che da 23 anni si occupa di accoglienza dei migranti. “Nell’appartamento in cui vive Michael, quattro ragazzi su sei hanno ricevuto un rifiuto”, racconta. “Stamattina dovrò dire a un ragazzo che il suo appello è stato respinto. È stato con noi tre anni e ora dovrà lasciare la struttura entro sette giorni”.

Un richiedente asilo al lavoro in un’azienda che produce sedili per la Lamborghini a Grugliasco, 2015. (Giorgio Martinale)

“Per noi operatori la frustrazione è molto grande, perché il nostro lavoro viene completamente vanificato. A Torino per fortuna i programmi di tirocinio e di borsa lavoro funzionano molto bene e i ragazzi riescono a inserirsi nella vita lavorativa della città”, continua Mariani. “Ma il rifiuto della protezione vanifica tutto. Quando arriva una risposta negativa tutto l’impegno diventa inutile e i ragazzi vengono spinti alla disperazione. Chi non lavora con loro non si rende conto di quanto ci investono. È il progetto della loro vita”.

Nel 2016 hanno ricevuto risposta negativa il 56 per cento delle domande d’asilo

Il sistema Sprar di Torino funziona molto bene, riesce ad attivare 350 tirocini all’anno. Ma i percorsi d’integrazione non sono valutati né dalle commissioni territoriali né dai tribunali, e non ci sono altri modi in Italia per ottenere una regolarizzazione e un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

“Per i giudici, il fatto di avere un lavoro e il grado d’integrazione dei ragazzi non sono importanti per concedere una forma di protezione”, spiega l’operatrice. E la situazione sta peggiorando: nel 2016 le richieste d’asilo in Italia sono aumentate del 47,2 per cento rispetto all’anno precedente, ma i tempi per il loro esame da parte delle autorità si sono dilatati. Le richieste esaminate dalle venti commissioni attive in Italia sono diminuite del dieci per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Sono aumentati invece i dinieghi, cioè le risposte negative da parte delle commissioni territoriali. Nel 2016 è stato respinto il 53 per cento delle richieste d’asilo, una richiesta su due, secondo il rapporto presentato durante un’audizione il 31 gennaio del 2017 dal prefetto Angelo Trovato, presidente della commissione nazionale per il diritto d’asilo. Nel 2014 le richieste respinte erano il 32 per cento, nel 2013 il 29, nel 2012 il 21.

La maggior parte delle persone che ricevono una risposta negativa da parte delle commissioni territoriali presenta un ricorso in tribunale. Dal 2014 al 2016 sono stati presentati 53.438 ricorsi e nel 70 per cento dei casi sono stati accolti. Una percentuale talmente alta da far sorgere dei dubbi sulle valutazioni fatte dalle commissioni territoriali. Inoltre la situazione non è omogenea sul territorio nazionale: cambia molto da commissione a commissione, da tribunale a tribunale, in base a logiche che sembrano eccessivamente discrezionali.

“In certi tribunali alcune domande sono accolte, in altri tribunali e in altre zone d’Italia le stesse situazioni sono valutate negativamente. A noi operatori sembra una lotteria”, spiega Carla Mariani. “Capita sempre più spesso che i datori di lavoro chiedano di parlare con gli avvocati perché vogliono essere ascoltati dal giudice e vogliono far mettere agli atti che sono disposti ad assumere i ragazzi”.

Un richiedente asilo della Guinea Bissau nella pasticceria Dolcearea di Torino, dove lavora, gennaio 2017. La sua richiesta d’asilo è stata respinta. (Giorgio Martinale)

“I ragazzi, dal canto loro, non sono disposti a tornare indietro. Neanche quando le loro prospettive di un futuro in Italia vengono stroncate. Le autorità pensano che questo li spinga a tornare nei paesi d’origine, in realtà li costringe solo a mettersi nelle mani dei caporali, nella migliore delle ipotesi, e della criminalità, nella peggiore”, afferma Mariani. Già nel maggio del 2016 Carlo Perego, presidente della Fondazione Caritas Migrantes, aveva avvertito che questo meccanismo sta assumendo dimensioni rilevanti: “Sta crescendo il popolo di chi riceve il diniego all’asilo. Serve valutare, da parte del governo, la possibilità di un permesso di soggiorno umanitario per evitare che si crei un popolo di invisibili, sfruttati”.

Senza asilo
A Torino ci sono circa cinquanta richiedenti asilo che hanno ricevuto il “doppio diniego”, cioè un rifiuto sia da parte della commissione territoriale sia da parte del tribunale, anche se si sono integrati dal punto di vista economico e lavorativo. La situazione ha spinto operatori, avvocati e associazioni torinesi a lanciare nel dicembre del 2016 una campagna chiamata SenzaAsilo per portare questo fenomeno all’attenzione delle autorità. “Siamo alla terza riunione e il progetto sta riscuotendo molto interesse anche al di fuori del nostro territorio, segno che il tema è molto sentito”, spiega Anna Bertrand della cooperativa sociale Progetto tenda, tra le promotrici della rete.

“Abbiamo chiesto d’incontrare il prefetto, di collaborare di più con le commissioni territoriali, ma al livello nazionale appoggiamo la raccolta di firme lanciata dai radicali per chiedere la riforma del testo unico sull’immigrazione (la cosiddetta legge Bossi-Fini). Secondo noi il principale problema è il quadro legislativo, che non permette la regolarizzazione per motivi di lavoro di chi è già sul territorio italiano”, afferma Bertrand.

Stiamo creando un esercito di clandestini che potrebbero non esserlo

“I dinieghi appaiono purtroppo caratterizzati da una marcata discrezionalità e non valorizzano adeguatamente il percorso d’inclusione sociale già svolto”, afferma il documento fondativo della rete SenzaAsilo. Spingere nell’irregolarità persone che sono passate dal sistema di accoglienza, vanifica non solo i loro sforzi e l’investimento compiuto, ma anche tutto il lavoro degli operatori, senza considerare lo spreco di risorse economiche pubbliche.

“Ad Asti su un totale di 140 persone accolte, abbiamo avuto circa 60 dinieghi”, spiega Alberto Mossino, fondatore del Piam. “Si tratta di persone arrivate in Italia tra il 2014 e il 2015, hanno frequentato tutti una scuola d’italiano, hanno fatto i corsi di formazione, hanno svolto almeno due mesi di tirocinio o lavoro volontario, e qualcuno ha anche trovato lavoro. Se si calcola che ognuno di loro è costato allo stato 35 euro al giorno per 18 mesi, significa che 1.228.500 euro sono stati spesi invano”, continua Mossino. “Potevamo accompagnare questi ragazzi a diventare cittadini, lavoratori e contribuenti e invece abbiamo creato degli irregolari”. Al movimento SenzaAsilo si sono aggregate moltissime aziende che vogliono difendere questa esperienza d’integrazione.

“Di recente il proprietario di un supermercato mi ha confessato che, prima di conoscere personalmente un richiedente asilo andato a fare il commesso da lui, aveva paura dell’immigrazione, ma il fatto di aver conosciuto questo ragazzo gli ha fatto cambiare idea sull’intero fenomeno”, racconta Anna Bertrand. “Il valore di queste esperienze è sociale e culturale, oltre che economico”.

Secondo gli operatori e le associazioni, se i richiedenti asilo si trasformano sempre più spesso in irregolari è perché la legge italiana non permette nessun accesso per motivi di studio e di lavoro, e perché le politiche sull’immigrazione sono sempre più caratterizzate dalla criminalizzazione dei migranti e dall’idea che l’accoglienza si può gestire solo come un’emergenza.

“Sarebbe più ragionevole mettere mano ai meccanismi di regolarizzazione degli stranieri, valorizzando i legami lavorativi, familiari e sociali già esistenti che quelle persone hanno costruito nel loro percorso d’integrazione”, afferma l’avvocato Dario Belluccio dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). “E non è per bontà d’animo ma perché è con la regolarità di soggiorno e l’integrazione che li si rende ‘visibili’ e non li si lascia in condizione di precarietà sociale e lavorativa”, afferma Belluccio.

“Stiamo creando un esercito di clandestini che potrebbero non esserlo”, conclude Anna Bertrand.

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