14 dicembre 2016 13:29

Shamil Khakimzyanov non sta mai fermo. Passa senza sosta da un piede all’altro, e il suono martellante della musica elettronica rende difficile seguire le sue parole. È soddisfatto. Sono le quattro di notte e dopo un avvio fiacco ora il locale è gonfio davvero, il dj ispirato, la folla ondeggiante. Il rave lo ha organizzato il suo promo group Reset. E il successo qui al Closer è cruciale nella comunità underground ucraina, che è il suo mondo.

Al locale si arriva salendo le scale di una fabbrica dismessa di Podil, il vecchio cuore mercantile di Kiev affacciato sul fiume Dnepr, dove nei palazzi delabré e negli hangar dei cantieri navali da un paio d’anni spuntano club, rave estemporanei, comunità di creativi e incubatori di startup. “Il Closer è nato tre anni fa, quando un gruppo che organizzava feste ha deciso di diventare stanziale”, racconta Shamil. “Festeggiamo il compleanno in questi giorni”.

I tempi coincidono con quelli della rivolta di Maidan, cominciata il 21 novembre 2013: quel giorno un pugno di studenti e attivisti si ritrovò alla colonna di piazza Indipendenza per protestare contro la decisione del presidente Janukovič di non firmare l’accordo di partenariato con l’Unione europea. Proteste che diventarono manifestazioni di massa contro il regime dieci giorni dopo, quando i poliziotti pestarono a sangue i ragazzi. “Sì, le cose sono cambiate più o meno da allora, con la rivoluzione”, conferma Shamil. “Oggi sono molti di più e molto più caldi quelli che frequentano la Kiev underground”. E sono quasi tutti nati dopo la fine dell’Urss. Vanno ai rave organizzati da Cxema nei garage o sotto i ponti e alle feste segrete di Rhythm Buro. Chi può, d’estate arriva fino al Port, a Odessa. Ma il posto migliore è il Closer, assicura Shamil.

Qui vengono anche dall’estero. Vladimir è arrivato dalla Bielorussia per il weekend. Ha in testa i dreadlocks. Vive a Minsk dove insegna percussioni africane, ma è nato a due passi da Černobyl. Era uno di quei bambini che passavano parte dell’estate in Italia presso una famiglia, la sua era dei dintorni di Bergamo. A Kiev viene spesso per vedere il suo amico Andrij. Prima si incontravano a Koktebel, in Crimea, il ritrovo dei fricchettoni postsovietici. “Affittavamo una capanna e suonavamo tutto il tempo, oppure rollavamo le canne”, dice. Dopo l’invasione russa però la Crimea è off-limits, così si incontrano a Kiev, e a Vladimir sta bene. “Locali come questo in Bielorussia non esistono. E nessuno si azzarda a scendere in piazza, come hanno fatto qui. I poliziotti ti farebbero a pezzi a bastonate. Finché sarà vivo il nostro batka (padre) Lukashenko, le cose non cambieranno”. Nell’attesa che muoia, Vladimir viene al Closer in gita. Questa volta ha portato anche la sua ragazza, “per farle sentire la libertà che c’è da queste parti”.

La club economy di Shamil
La geopolitica però non è un criterio dirimente quando si tratta di musica. Irina, la barista, suggerisce di tornare al Closer la prossima settimana, quando alla consolle ci saranno i russi. “I dj russi sono più forti”, assicura, anche se non sa spiegare perché. “Hanno più soldi, più energia, la Russia è più tutto”. Shamil in Russia c’è nato, la sua famiglia è del Tatarstan, nel cuore del Caucaso. Suo padre è partito subito dopo il crollo dell’Urss. “Voleva aprire un’attività e la mafia qui era meno cattiva e sviluppata che a casa”. Non ha nulla contro i russi. “Non è la Corea del Nord. Siamo fratelli e sono certo che quando cambierà il presidente cambieranno le cose anche lì. E magari entreranno nell’Unione europea anche loro, che dici?”. Oggi però a Mosca fare affari è più duro. “C’è più movimento, ma anche più incertezza. A luglio le autorità hanno cancellato l’ultimo il festival Outline. Così perdi tutti i soldi”. Con Putin – conclude – non si lavora bene.

Neanche a Kiev però riesce a mantenersi con la techno. Si muove bene Shamil, fa venire artisti stranieri con cachet da diecimila euro ai festival che organizza e tra un po’ lancerà anche un suo marchio di dischi in vinile. Ma non basta. Fa i calcoli in fretta. “Un disco costa dieci euro, qui in media guadagniamo 300-400 euro al mese. Se sei un patito ti compri dieci dischi e hai bruciato un terzo del tuo stipendio”, scherza. Teorizza la club economy: “Se l’economia tira, la gente ha soldi anche per beni voluttuari come i club. E li rimette i circolazione”.

‘A Berlino il muro è crollato, qui ancora no, abbiamo fatto circa l’80 per cento del lavoro. Cosa manca?’

Oggi non è così. L’economia si è contratta del 6,8 per cento nel 2014, del 12 per cento l’anno scorso. E dopo il crollo della moneta locale, che in un triplice crash ha perso due terzi del suo valore, la vita è dolce per chi viene da fuori con gli euro, ma può essere molto amara per chi vive in un paese che produce poco o nulla. E anche i 180 grivna per entrare al Closer, sei euro al cambio, diventano per molti un ostacolo insormontabile.

Così la cultura underground per ora è un hobby – Shamil di giorno fa “il consulente per l’efficienza energetica” – o al più una missione, come spiega il suo amico Nikita Ierashev, che sta lanciando Pivnic, il primo magazine ucraino dedicato solo alla musica elettronica: “Qui in maggioranza vengono per i rave e per impasticcarsi. Noi vogliamo diffondere una piccola rivoluzione culturale”. Aspettando che riprenda quella politica: “Non ci aspettiamo finanziamenti alla cultura come accade in Europa ai festival underground, ma vorremmo almeno smettere di pagare mazzette”.

Qualcosa è cambiato dopo la stagione del Maidan, dicono. Ma non abbastanza. “La rivoluzione c’è stata ma è rimasta incompiuta”, secondo Shamil. “Siamo ancora in movimento, però. O andiamo avanti e diventiamo come Berlino, o il governo proverà a metterci i bastoni tra le ruota. E allora chissà”.

Il club Closer, Kiev, nell’ottobre del 2016. (Lorenzo Pesce, Contrasto)

Berlino è un punto di riferimento, lì ci sono i locali di culto, come il Berghain. Shamil ci si è solo affacciato, perché entrare nella Ue costa tanto, anche per pochi giorni. Ma è stato sufficiente. “Ora sappiamo come vivono nel resto d’Europa. Lo vogliamo anche noi. E abbiamo il potenziale per farcela. Perché dovremmo rinunciarci? A Berlino il muro è crollato, qui ancora no, abbiamo fatto circa l’80 per cento del lavoro. Cosa manca? Non so, magari dobbiamo uccidere gli oligarchi, ma poi ci roviniamo il karma”, ride.

Lui è del 1989, il crinale da superare è ancora quello. “Ma la cortina di ferro ce l’hanno in testa gli anziani, non noi”, dice. “Non è una questione ideologica o geopolitica, ma di età. Le persone nate in Unione Sovietica hanno altre priorità. Se la rivoluzione si ferma, sarà il tempo a cambiare le cose, quando poco a poco chi è nato dopo la fine dell’Urss comincerà a contare di più”.

Cultura, business e politica
“Il riferimento a Berlino è corretto”, conferma il parlamentare Serhiy Leshchenko all’Honey, uno dei bar trendy del centro di Kiev dove la prima colazione costa quanto la paga giornaliera della classe media. “Qui sta accadendo la stessa cosa successa a Berlino dopo la caduta del muro, quando è scoppiato il boom della musica elettronica. Sono tempi vibranti. E i club, come le startup o la street art, sono parte della rivoluzione”. Tant’è che, poco dopo la caduta di Janukovič, quando un capo della polizia in cerca di consensi ha provato a chiudere il Closer, un rave di protesta davanti al principale palazzo del governo l’ha costretto a riaprirlo.

Il mondo underground Leshchenko lo conosce bene. È fidanzato con Anastasia Topolskaja alias Nastia, la più nota dj ucraina. Ma ha altre credenziali, oltre alle frequentazioni da discoteca, per parlare di cambiamento. Lavorava al battagliero Ukrayinska Pravda ed era il giornalista investigativo più temuto dal potere ai tempi del vecchio regime. Dopo la vittoria di Maidan ha deciso di lanciarsi in politica con gli amici e leader della piazza Svitlana Zalishchuk e Mustafa Nayyam, il figlio di emigrati afgani passato alla storia come l’uomo che ha dato il via alla rivoluzione con un post su Facebook.

Il piccolo scontro di civiltà attorno al Closer rientra in un conflitto generazionale che – secondo Leshchenko – “in Ucraina riguarda tutti i settori: cultura, business e soprattutto politica, tra i nuovi che spingono per il cambiamento e le élite aggrappate a vecchi privilegi”. Dall’altra parte della barricata generazionale, però, c’è anche un’Ucraina non elitaria, che alla techno preferisce la musica italiana più melensa che spopolava ai tempi dell’Urss, e per sballare tutt’al più accompagna il salo (lardo e cipolla cruda, il piatto nazionale, più ancora del borsch) con la horilka, la vodka locale a buon mercato (mai cattiva, perché come dicono i russi “ci sono due qualità di vodka, la buonissima e la buona, la vodka cattiva non esiste”).

‘Noi siamo riusciti a spezzare il monopolio degli oligarchi sulla politica, ma questo non vuol dire che non contano più’

La spaccatura che descrive Leshchenko può essere intollerabile se l’anagrafe ti condanna. Due date di nascita equivalgono a due sistemi, due curriculum, uno dei quali irrimediabilmente compromesso, come spiega Vitalij Syč, direttore di Novoje Vremja, il settimanale più letto della nuova Ucraina: “Qui le offerte di lavoro spesso si rivolgono solo a persone sotto i 35-40 anni. Non vogliono persone con esperienza, perché sono cattive esperienze: non hanno le competenze e la mentalità adatta. Ma per quelli tagliati fuori è dura. Mia madre ha 60 anni, cerca lavoro e dice: ‘Che posso fare, non posso mica levarmi gli anni?’”.

Come Serhiy Leshchenko, anche Svitlana Zalishchuk s’infervora quando parla della rivoluzione, ma sa che in Ucraina il contesto economico e sociale non aiuta: “Siamo uno dei paesi più poveri d’Europa, e prima di poter apprezzare la libertà devi almeno avere i soldi per vestire tuo figlio”. La tesi del conflitto generazionale applicato alla politica non la convince del tutto. “Il punto non è l’età”, dice, “ma che testa hai e da dove arrivi. Se sei un prodotto del vecchio sistema e hai scheletri nell’armadio non osi muoverti, perché sei ricattabile”.

Una piccola finestra
Lei non lo è. Viene dalla società civile, dice con orgoglio. E sottolinea quanto sia cresciuta negli ultimi anni. “La vera trasformazione è questa. C’è cambiata la testa. Tre o quattro anni fa non sapevamo neanche cosa fosse un volontario, ora un cittadino su cinque è impegnato nei campi più diversi”. Lei rivendica di aver fondato a 26 anni “l’ong più dura nei confronti del regime”, il Centro delle azioni unite. Ora ne ha 33 e scalpita in parlamento.

“Nel 2014 si è aperta una piccola finestra per entrare nel sistema e cambiarlo dall’interno, noi l’abbiamo varcata prima che si chiudesse”, spiega Leščenko. I giovani di Maidan hanno trovato posto nella lista che porta il nome del presidente della repubblica e re del cioccolato Petro Porošenko. La loro corrente è chiamata “eurottimista”, ma l’esperienza è stata deludente. E l’indice di gradimento del governo da allora è crollato quanto il pil, piombando fino al 6,8 per cento dei consensi, secondo un sondaggio di fine ottobre. “Com’è la politica? Posso dire parolacce?”, scherza Svitlana Zalishchuk. “Diciamo che vista da vicino è molto peggio di quanto mi aspettassi. Abbiamo fatto un compromesso, usando il partito del presidente come un tram per farci portare a destinazione. Ma siamo rimasti schiacciati”.

Svitlana non si dà per vinta, ma è dura, riconosce: “La compenetrazione tra politica ed economia è stata per un quarto di secolo l’architrave del ‘nuovo’ sistema, che ha ereditato i vizi del vecchio. Noi siamo riusciti a spezzare il monopolio degli oligarchi sulla politica, ma questo non vuol dire che non contano più. Rimangono ancora gli attori più potenti e influenti del paese”.

Oggi nel sistema politico, solo uno su dieci – calcola – è a favore del cambiamento. “Il problema è che l’energia del Maidan si è dispersa, ora dobbiamo creare la nostra forza per consolidare i risultati della rivoluzione”. Serve un partito insomma, e se lo sono preso. Svitlana Zalishchuk è diventata la co-leader di DemAlliance, formazione liberale sui generis, tenuta insieme, dice, “dalla lotta contro la corruzione”.

Kalenyuk faceva l’avvocata, che in Ucraina, spiega, vuol dire mediare tra chi versa e chi incassa bustarelle

La corruzione in Ucraina, paese che nelle classifiche dell’organizzazione Transparency international sta al livello delle cleptocrazie africane, è il moloch che ti trovi sempre di fronte. E viene indicato, molto più della Russia, come il vero nemico da abbattere.

“È stata la lotta contro la corruzione il motore della rivoluzione della dignità”, come in Ucraina chiamano l’Euromaidan, conferma Daria Kalenyuk, una delle attiviste più rispettate del paese. “Ogni ucraino deve farci i conti. Paghi per far entrare tuo figlio all’asilo o all’università, per farti curare, per tutto. Ed è più facile vivere se segui queste regole del gioco. Ma l’intolleranza è cresciuta, soprattutto tra i giovani, che viaggiano e capiscono che qui vengono derubati. Fino alla rivolta”.

È stato così anche per lei. Faceva l’avvocata, che in Ucraina, spiega, vuol dire mediare tra chi versa e chi incassa bustarelle. “Non mi andava giù”. Così ha fondato il Gruppo anticorruzione, che spinge per far passare leggi incisive e rendere più accessibili le informazioni sui grandi patrimoni. La sua ong è uno dei nuovi attori che nel dopo Maidan continuano a tenere sotto pressione il potere.

Una bella spinta rivoluzionaria
Ma non basta. L’Ucraina ha un problema strutturale di concentrazione della ricchezza. Nel 2013, l’anno della rivoluzione, i 50 uomini più ricchi del Paese possedevano più del 45 per cento del pil, oltre il doppio rispetto alla Russia. Con conseguenze pesanti anche sulla salute dell’economia, non solo su quella della democrazia. E le cose da allora non sono cambiate tanto.

“Gli oligarchi fanno profitti investendo nel sistema politico, non nella loro impresa. Vendono beni e materie prime di scarsa qualità a prezzi gonfiati, grazie a licenze e contratti regalati dallo stato”, spiega Kalenyuk. Accanto a questa economia elefantiaca, però, uno sciame di giovani imprenditori fa dell’Ucraina una sorprendente startup nation, che nel 2015 valeva oltre cinque miliardi di euro e contava più di duemila imprese e 20mila ingegneri specializzati in information technology (It). Una Ucraina che va veloce, forse troppo. La incontri nell’incubatore Open Data 1991, vicino all’edificio rosso fuoco dell’università Taras Ševčenko, o allo spazio di coworking Hub 4.0, a Podil.

Fino a poco tempo fa, racconta ridendo un collega di Patsalo, gli startupper che non ripagavano il debito finivano in fondo alla Dnepr

Ivan Seleznov ha 20 anni. Con due coetanei ha lanciato il progetto OpenWorld, che punta a rendere le città ucraine più accessibili ai non vedenti attraverso lo sviluppo di un sistema di beacon Bluetooth collegati a una app. “La rivoluzione ha dato una bella spinta”, dice. “Le amministrazioni comunali ora sono più aperte a questi progetti”. Quattro comuni – Kiev in testa – hanno già ordinato il dispositivo. Il tentativo di raccogliere denaro con il crowdfunding, però, è stato un mezzo flop. Come mai? “Immagino sia difficile pensare a questo tipo di innovazione sociale quando ancora ti mancano dei beni fondamentali”, si lascia scappare Ivan con un po’ di imbarazzo.

Teme di essere un po’ troppo avanti anche Alex Patsalo, fondatore di Digi-24, che con un unico device trasforma la casa in una smart house. “Venderlo qui è un’impresa”, dice. “La gente non sa neanche cosa sia una smart house”. I soldi per partire li ha trovati da un business angel ucraino. È stato fortunato. Fino a poco tempo fa, racconta ridendo un suo collega, gli startupper che non ripagavano il debito finivano in fondo alla Dnepr. Ora il concetto di rischio d’impresa sta entrando nella testa dei potenziali investitori. “Ma gli accordi con loro non hanno nessun valore in tribunale, manca la struttura legale e giudiziaria per fare impresa”, spiega Alex, “difficile stare tranquilli”. Così appena avrà le carte pronte la Digit24 si sposterà negli Stati Uniti, in Delaware.

Tra scienza e impresa
L’America ce l’hanno in mente molti. Sperano di replicare la favola di Jan Koum, un ragazzo della periferia di Kiev emigrato a Mountain View, dove ha fondato il colosso della messaggeria WhatsApp, poi venduto a Facebook per 19 miliardi di dollari. Dariya Loseva no. Ha cambiato idea. “Volevo fare un dottorato all’estero”, racconta, “ma la rivoluzione mi ha convinto a restare”. Studia genetica e all’università ha notato che molte delle sue applicazioni non sono accessibili in Ucraina. Così, con la compagna di studi Ruslana Shadrina e altre due ragazze – tutte sotto i trent’anni, Loseva ne ha 27 – ha fondato l’azienda MyHelix, che sulla base dell’analisi del dna suggerisce diete personalizzate.

Nel quartiere di Podil, Kiev, nell’ottobre del 2016. (Lorenzo Pesce, Contrasto)

Nell’incubatore Open Data 1991 le scienziate hanno imparato i rudimenti necessari per diventare imprenditrici, anche se in realtà – spiega Loseva – “abbiamo creato l’azienda per continuare a fare ricerca. Quando hai il tarlo è difficile smettere. E siccome i fondi dal governo non arrivano, l’idea è di reinvestire nella ricerca parte dei soldi guadagnati. E vogliamo farlo qui”.

Loro si muovono agilmente tra scienza e impresa, ma è un ponte che in Ucraina si fatica ad attraversare.“Credo sia parte dell’eredità sovietica”, dice Daria, gli scienziati sono chiusi in accademia e gli imprenditori non vanno a cercarli. “Non si trovano bene in un incubatore”, sottolinea Oleksandra Alokhina, responsabile marketing – “dove creativi, scienziati ed esperti di impresa devono imparare a lavorare insieme. Per noi è una cosa nuova, io stessa un anno fa non sapevo bene cosa fosse”.

Sorridono quando vengono a sapere che l’Unione europea sostiene le giovani imprenditrici. “Sì”, dice Loseva, “vedo che a ovest il fatto che siamo quattro ragazze colpisce. Qui no”. Secondo Alokhina però il conflitto ha cambiato qualcosa. “A volte mi sembra di vivere nei racconti del tempo della seconda guerra mondiale: i ragazzi in prima linea, noi a lavorare nelle retrovie”.

Negli uffici Microsoft che ospitano l’incubatore la guerra sembra lontana anni luce. Alokhina però la sente eccome. “Molti di noi conoscono persone che sono al fronte, abbiamo quasi tutti qualcuno in testa”. Lei è nata e cresciuta a Mariupol, nel Donbass, diventata nella primavera del 2014 un campo di battaglia. Da quando è scoppiato il conflitto non è più tornata. “Mia madre sta ancora lì, abitavamo vicino alla frontiera con la Russia, adesso però ha cambiato casa. Non ce la faceva più a sentire sparare. Io non ci voglio tornare, anche se mi sento in colpa per questo”.

Molti dei volontari partiti per il fronte vengono da Maidan, racconta. “E non si tratta degli estremisti di destra che inquinavano la piazza”, ci tiene a precisare. “Diversi miei amici all’università, esperti di informatica o startupper senza nessuna preparazione militare, sono andati in guerra dall’oggi al domani”. Alcuni sono stati poi reclutati dalle brigate di information technology messe in piedi per combattere le battaglie nel ciberspazio.

Un equivoco da sciogliere
Maxim Korzhenevsky al fronte non c’è andato, ma ha fatto la sua parte nella ciberbattaglia di Maidan, mettendo in piedi con l’organizzazione Logshtab l’infrastruttura tecnologica necessaria per l’occupazione della piazza. Regolava con un call centre il flusso e la vita dei volontari che arrivavano da fuori. “La vera partita si giocava sulla resistenza fisica”, racconta. “Se eri stanco, affamato e congelato noi ti trovavamo da mangiare e da dormire. E organizzavamo i turni che permettevano di presidiare la piazza giorno e notte. Pensavano di fotterci con il generale inverno, non ci sono riusciti”. Maxim si diverte a raccontare nel dettaglio mosse e contromosse del duello con gli hacker russi, che provavano a mandare in tilt il sistema. Fino alla vittoria. “Ho fottuto il Kgb”, conclude.

Ha una risata felice, sguaiata e contagiosa, Maxim. È una serata di festa. Una fetta della comunità di information tecnhology di Kiev si è riunita al Mezzanine per il compleanno di Sasha, il più nottambulo tra di loro. Il Mezzanine è a un solo piano di scale dal Closer, ma è un locale più rilassato, gli avventori sono più adulti – potrebbero essere i fratelli maggiori dei frequentatori del Closer – e anche la musica è più morbida. Hanno appena finito di suonare i Ruki’v Bryuki. Aleksander, 32 anni e voce del gruppo, è vestito come Elvis Presley negli anni cinquanta – piena guerra fredda – ma canta rockabilly, rhythm & blues e mambo con testi suoi, sia in russo sia in ucraino. “Metà e metà, prima parlavamo solo il russo, ora proviamo tutti a parlare ucraino. Ma è giusto così”, aggiunge con un po’ di imbarazzo. Poi il dj lancia gli Auktyon – gruppo cult dell’Urss morente – e si scatenano tutti. Anche Maxim.

‘Il movimento di Maidan si è formato perché una notte hanno picchiato a sangue ragazze e ragazzi. Il giorno dopo ci aspettavamo delle scuse, e invece niente’

Ora Maxim è tornato alla sua vita normale, e si occupa a tempo pieno di sicurezza dei pagamenti su internet. “Quando è cominciata la protesta ho scritto ai miei partner ‘nel mio paese c’è una rivoluzione in corso e io devo partecipare’. E ho lasciato la direzione a un’altra persona”, racconta l’indomani a casa. “Da allora ho passato ogni minuto a pensare come potevo aiutare Maidan. Ogni tanto ci davamo il cambio con mia moglie Olesia, e stavamo qui a casa a riposare con Fedor”, il figlio che allora aveva tre anni. Maxim è sceso in piazza perché la polizia ha alzato le mani sugli studenti. “Se non avessero picchiato quei ragazzi con quella violenza, non ci sarebbe stato nessun Maidan. Hanno attraversato una linea rossa e poi non c’era più ritorno. L’Europa c’entra fino a un certo punto”.

È un equivoco che a Kiev ci tengono a sciogliere. “All’estero siete convinti che il Maidan sia cominciato per protestare contro la decisione di non firmare l’accordo con l’Europa”, dice il direttore di Novoje Vremja Vitalij Syč. “Ma non è questo che ha scatenato le manifestazioni di massa. Il movimento di Maidan si è formato perché una notte hanno picchiato a sangue ragazze e ragazzi. Il giorno dopo ci aspettavamo delle scuse, delle dimissioni, volevamo sentirci dire che non era una cosa normale. E invece niente, per il potere era giusto così. Due giorni dopo c’erano centomila persone in piazza. Perché non volevamo continuare a vivere in quel tipo di società. E non ce ne saremmo andati fino a quando non fosse cambiata. Ed era ed è questa, semmai, l’Europa che abbiamo in mente”.

I cincillà
A Kiev gli europeisti considerano i cittadini dell’Ue dei viziati, che danno per scontati i benefici dell’integrazione. “Ho amici polacchi che si lamentano sempre, e io gli dico: proprio non vi ricordate com’era. Ora potete viaggiare dove volete. Se a vostra figlia succede qualcosa potete avere giustizia in un tribunale. E l’Europa è questo, la traduzione dei cambiamenti raggiunti”, dice Syč.

Svitlana Zalishchuk da politica sottolinea che “è difficile per noi parlare di integrazione con una Ue che si sta disintegrando”, ma la struttura comunitaria interessa poco qui, la geopolitica ancora meno. “Le cose sono più semplici”, insiste Syč. “Da un lato abbiamo la Russia: non c’è vera libertà di stampa, manca la concorrenza nel campo economico e in quello politico. E c’è parecchia corruzione. Dall’altra parte c’è l’Europa: non puoi uccidere i giornalisti, puoi aprire un’impresa, dire e pensare più o meno quello che ti pare. C’è chi ha visto la Russia. Poi ha visto l’Europa. E ha scelto. Tutto qui”.

Per questo in Ucraina sottolineano spesso quanto sia alto il muro che si trovano davanti se vogliono uscire dal paese a ovest. Lo fa Shamil al Closer in mezzo alla notte – facendo i conti, e aggiungendo al prezzo del visto quello delle condizioni imposte; e si accalora quando ne parla Serhiy Leshchenko, convinto che nella battaglia per cambiare l’Ucraina, la svolta possa venire dalla liberalizzazione dei visti, imminente per i soggiorni brevi (fino a 90 giorni) dopo l’accordo raggiunto all’inizio di dicembre a Bruxelles.

“È fondamentale per noi vedere come vivono gli altri europei e capire come ci si arriva”, dice. E dopo aver immerso l’ultimo pezzo di pane nelle uova alla Benedict dell’Honey, Leshchenko alza la testa e spiega: “Siamo la coda di una lunga ondata di democratizzazione iniziata trent’anni fa, ma all’avanguardia in Unione Sovietica. Sappiamo di avere gli occhi addosso. E dopo di noi, prima o poi toccherà anche alla Russia.”

Maxim non ha la vista tanto lunga. Ma per certi versi, sente di aver già vinto. Lo ha capito alcuni giorni prima della fuga di Janukovič. “Ero con degli amici e i loro figli, e quando i poliziotti hanno cominciato a caricare ci siamo messi a correre. A un certo punto abbiamo superato una signora anziana, che stava ferma. Ci ha guardato stupefatta e ha urlato: ‘Che cosa state facendo, siamo molti più di loro’. Non potevi continuare a scappare, ti saresti sentito una merda tutta la vita. Allora abbiamo cominciato a correre verso di loro. E per la prima volta li ho visti scappare. È stato un momento – poi ci sono stati altri scontri, durissimi, e vittime – ma qualcosa nella mia testa è cambiato. Ecco, la polizia ora non ci picchia più. E non è poco. Oggi i poliziotti sono così teneri che li chiamiamo cincillà. Il resto arriverà”.

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